La Sandplay Therapy, ideata da Dora Kalff, è una modalità espressiva che coinvolge la materia al servizio dell’inconscio per avviare e favorire il dialogo interno con le proprie potenzialità creative, le proprie risorse, che sono sempre presenti anche nei momenti di disagio psicologico o di profonda sofferenza psichica. Inizialmente applicata principalmente nella terapia dei bambini e degli adolescenti, si è successivamente diffusa anche nel lavoro con gli adulti, dove viene per lo più affiancata al setting classico usato in una terapia verbale ad orientamento analitico.
Attraverso la Sandplay Therapy è possibile esprimere ad un livello che ancora non è accessibile alla coscienza, angosce personali o collettive, memorie rimosse che causano malessere. È possibile superare l’unilateralità della coscienza ed ampliare la propria personalità integrando pensieri, sensazioni, sentimenti ed intuizioni. Il paziente, per lo più in seguito ad un’interpretazione o ad un insight fondo, o anche totalmente preso da uno stato d’animo con cui entra in seduta, sente la necessità di andare alla sabbiera – campo questo che ha già avuto modo di sperimentare almeno una volta all’inizio della terapia -. Perché sente questa necessità? Che c’è di diverso, tanto da fargli sentire la necessità di andare al campo della sabbiera? In realtà ciò accade perché vive un momento in cui sente che sta per appalesarsi qualcosa di inesprimibile e si volge alla sabbiera lasciando che le sue mani rappresentino, in via diretta e immediata, ciò che la sua psiche presagisce ma non riesce a pensare.
Il terapeuta accompagna il paziente, prepara la strada all’interno di una comunicazione conscia e una inconscia profonda tra paziente e terapeuta che coinvolge il corpo ma anche la sfera della spiritualità e quella degli istinti. È un sognare con le mani. L’interpretazione è silenziosa, almeno inizialmente. Avviene nel terapeuta che accoglie ed elabora le emozioni del paziente che ancora non possono essere pensate e non hanno voce. Nell’ambito di un insieme di cui non conosciamo i limiti e le definizioni stesse e che denominiamo “Psiche”, quelli che trovano un loro spazio privilegiato di rappresentazione all’interno della sabbiera sono non solo e non tanto pensieri che ancora non riescono ad essere pensati ma, più problematicamente, quelle aree psichiche che sono rimaste strettamente ancorate alla realtà corporea e che non riescono a trovare una dimensione di simbolizzazione per poter essere integrate. L’uso della sabbiera, per le sue caratteristiche di “fisicità”, e di esasperazione della percettività, nonché per le sue stesse caratteristiche (limiti fisici della cassetta – contenimento) si configura come una splendida metafora corporea attraverso la quale tali aree riescono a trovare una dimensione di rappresentazione, una “simbolizzazione spontanea” realizzantesi in virtù del fatto che viene utilizzata un’area che ha le caratteristiche di essere uno spazio libero e protetto e di per sè favorente l’organizzazione e che si situa in un’area intermedia e vicariante, che precede la capacità stessa dell’individuo di simbolizzare quella specifica area, incapacità dovuta all’impossibilità del paziente a reperire dentro di sé quella stessa area almeno relativamente libera e protetta, e che indirizza gli sforzi di terapeuta e paziente su una delle dimensioni più arcaiche della psiche: quella dove il biologico, il corporeo, si fanno, ancora per noi misteriosamente, simbolo vivente, rinnovando la possibilità di una profonda integrazione di diversi livelli della psiche.
Per questa ragione il lavoro nella sabbiera, in cui il terapeuta, più o meno consapevolmente, offre la sabbia come estensione del suo corpo, vicariante un’impossibilità del paziente a rappresentare nel proprio spazio interno, sembra “anticipare” una consapevolezza che il paziente raggiungerà spesso dopo mesi di lavoro o addirittura anni, ed è parimenti questa la ragione per cui sono di grande importanza i sogni fatti dal paziente “dopo” aver fatto una sabbia, sogni che vanno inquadrati come un primo spazio di rappresentabilità nello spazio interno del paziente.
Il lavoro fatto nella sabbiera non va mai interpretato, ma trattato esattamente come un qualcosa con cui la madre deve avere una buona reveriè e maneggiare nel vero senso della parola: sentirla quanto più possibile con il corpo, e cercare incessantemente per esso non un significato, ma tutta una serie di vissuti che possano collegare ciò che il paziente confusamente sente con ciò che ha rappresentato nella sabbiera, creando tutta una griglia di rimandi che pian piano aprano la via all’integrazione. In ciò si realizza un’esperienza fusionale fonda che riproduce la dimensione del corporeo come campo semantico comune, nonché un’esperienza di accoglimento di quel terrore senza nome che è rimasto finora tenacemente scisso. Successivamente quando il paziente sarà pronto per farlo, potrà dialogare con il terapeuta su tutto il suo processo. La sabbiera, come metafora corporea, può permettere che questi processi trovino almeno una prima possibilità di rappresentazione, obiettivo questo di primaria importanza se concordiamo che nessuna esperienza psichica è possibile se non si manifesta tramite una modalità rappresentazionale; il rappresentare costituisce l’attività base dalla quale non si può prescindere se ci si vuole riferire ai “fenomeni psichici”.
Nell’ambito della psicoterapia infantile, essendo la Sandplay una modalità terapeutica che si basa sul gioco, consente che tutto il processo avvenga in modo molto naturale, spontaneo, con un delicato rispetto verso la psiche del bambino.
Nella psicoterapia con gli adulti, permette alla parte ferita, non ascoltata, di comunicare e di essere vista, accolta e integrata. Recuperare la dimensione ludica, in una fase particolare della propria vita dove si può sentire il peso delle responsabilità e della sovra-struttura che la società impone, può rappresentare un momento dedicato a sé stessi, per sé stessi, verso la propria autenticità che consente di ritrovare nuove energie psichiche.
La Sandplay Therapy può essere utile anche a persone adulte che abbiano già svolto un percorso di analisi personale o di psicoanalisi e che sentono il bisogno di voler proseguire lungo la strada della conoscenza di sé.
Dr. ssa Mariela Ivana Alvarez e Dr. Franco Castellana