Ricordando Adriana Mazzarella
di Marco Garzonio
Alla ricerca di Beatrice rimanda a un’immagine: la vita è viaggio. Lungo strada sperimentiamo il travaglio e le attese del cammino. È la centralità del dantesco “Nel mezzo del cammin di nostra vita” da cui parte l’opera di Adriana Mazzarella e la sua testimonianza di donna e di analista.
Il viaggio inizia all’esistenza e alle trasformazioni di questa. Pensiamo a Jung, al Libro Rosso, Liber novus, là dove si rendono nuove le cose e noi stessi. L’esperienza ti suggerisce la necessità di mappe, ma apprendi presto che sei tu a disegnare la topografia. L’itinerario sarà scandito dai passaggi che tu affronterai, dai cambiamenti che riuscirai ad imprimere, dai cambiamenti che imparerai a praticare dentro di te e a portare fuori. Batti orme già stampate da altri, conosciuti o ignoti, poco importa. Sei tu che tracci la via: varianti, alternative. Un analista vive di ciò. Adriana ne fu esempio.
Nel viaggio ti accorgi che la memoria sconfigge la morte e rilancia la vita. Nulla è scontato in tale impresa. La memoria è radice e futuro: dà linfa al presente, spessore all’esistere, conforto alla fatica, luce al cammino. Ricordiamo quando siamo in grado di reggere il peso di ciò che è trascorso. Ricordiamo per compensare una contemporaneità inadeguata e distratta, che suscita imbarazzi, inquietudini, domande, turba, procura smarrimenti. Si ricorda per tenere acceso il lume del senso, ribadire che una scala di valori è condizione di vita, riportare di continuo l’oggi a misura di visioni ideali, smentire la piattezza, la mentalità corrente che vuole tutte le cose uguali.
Nel viaggio incontri qualcuno che procede come te, anche se a suo modo. Per le vie del mondo stabilisci convergenze o contatti fugaci, consumi dissensi, tensioni, conflitti. Ma godi anche di scambi profondi e intenti condivisi. Siamo unici, mai soli. “Nessun uomo è un’isola”, scrisse Merton.
Nella nostra avventura toccherà a noi di dire quella cosa che sarà detta una volta soltanto nella storia. Questa, però, non varrà esclusivamente per noi. La nostra parola giungerà sempre ad altri, che lo vogliamo o meno, che ne siamo consapevoli o svagati. Quella parola produrrà effetti, comunque. Vale ciò che è stato detto: “Se chi ha fatto luce dentro di sé è solo, ma pensa in modo giusto, sarà udito mille miglia lontano”. È Jung che ci ricorda il motto nel vol. XVI delle Opere, su “I principi di psicoterapia”.
Occasionalità e intenzionalità
“Quando incontri qualcuno non chiedergli da dove viene, ma dove va”, raccomandava Giovanni XXIII. Vivere la vita è guardare avanti, prepararsi agli appuntamenti possibili. Nell’affermazione di natura sapienziale sono racchiuse l’occasionalità e l’intenzionalità del viaggiare; curiosamente, si tratta anche di due categorie del sogno, almeno in una visione junghiana. Gli eventi, gli altri sono lì, imprevedibili e incerti; ci chiamano e ci sollecitano una risposta. Siamo di fronte ad una scelta: lasciarci andare o far finta di niente; contattare lo sconosciuto o non vederlo come fosse trasparente; accogliere ed elaborare la novità o sperare che tutto finisca alla svelta e che ogni cosa torni come prima, quasi non fosse successo niente. I drammatici esodi di oggi ci insegnano a fare i conti con l’irruzione del nuovo e del diverso che non avevamo calcolato e che invece noi stessi abbiamo contribuiti a determinare. Si pensi alle responsabilità dell’Occidente nei conflitti che martoriano il Medio Oriente. L’“altro” mette in discussione le sicurezze che ci eravamo costruiti e ci ricorda che dalle crisi si può uscire migliori di come ci si è entrati se si sa ascoltare.
Se non volti la faccia quando trovi gli altri, se tendi l’orecchio e ti disponi a metterti in gioco può determinarsi qualcosa, innescarsi un processo. Un’energia psichica si attiva in te e in chi ti sta di fronte, nell’interiorità di ciascuno e nel campo relazionale che si viene a determinare. Si comincia così a diventare “compagni di viaggio”. L’Io diventa Noi.
Una consonanza scatta quando lungo il cammino fatto in due si volge lo sguardo verso una medesima direzione. Può crearsi il terreno perché scatti una consonanza, i primi, timidi approcci prendano la forma d’una relazione. Nel procedere, è possibile che si costituisca uno spazio popolato di idee e progetti, di vissuti e sentimenti, di scambi d’esperienze e attese, di affettività e di pensieri. Lì non ci sono più solo i due che entrano in rapporto, ma si costituisce un’“entità terza”. La chiamo amicizia. È l’esperienza che ho fatto con Adriana. L’esperienza dell’amicizia ci parla d’un possibile “spazio psichico” che non va ad identificarsi o a sommarsi con l’insieme degli spazi mentali individuali. È qualcosa di nuovo, diverso, complesso: da sperimentare.
Non è definibile a priori lo spazio psichico. Si può restringere e dilatare, può ricevere apporti ulteriori ed essere fonte di sèguiti plurimi e in diverse direzioni impensabili, può rappresentare fonte di attrazione o di fastidio, alimentare impulsi energetici rivolti all’esterno o cumularsi e condensare sino ad implodere. Quando ci muoviamo nel campo dell’energia non parliamo per metafore: l’“energetica psichica” è realtà. Immaginiamo un nucleo energetico carico, in cui è racchiusa una forza che si attiva e produce conseguenze al semplice contatto e che ha un effetto di “irradiazione” se la consideriamo sotto il profilo dell’espressione simbolica. Ricordiamo un verbo caro a Jung e alla Psicologia Analitica: “costellare”.
È immagine e realtà di vita quella dei “compagni di viaggio”: sono persone reali. Li frequentiamo e su di loro facciamo conto. Ma i “compagni di viaggio” sono anche figure autorevoli: maestri, scrittori, poeti, romanzieri, saggisti, autori di opere spirituali, musicisti, pittori, scultori, registi di cinema, drammaturghi. Insomma: figure che abbiamo ritrovato in passaggi attraverso i quali ci siamo formati e temprati, ricevendo provocazioni per la coscienza e consolazione per lo spirito. Con loro siamo cresciuti. Il rapporto di Adriana con la Commedia è un prototipo di un inesauribile accompagnamento amicale, che fa crescere.
Taluni “compagni di viaggio” diventano importanti per noi. Colpiscono la nostra immaginazione, un po’ per i tratti biografici da cui spicca il loro modo di essere e di affrontare il mondo, un po’ per le storie narrate, i personaggi creati, le immagini rese. Acquisiscono la pregnanza dei simboli. Dalla loro testimonianza e dalle opere che hanno lasciato ricaviamo una modalità di andare avanti, una maniera di procedere, un esercizio di vita. Essi sono punti di riferimento in quanto apprendiamo da loro una capacità di fare domande e di rispondere, non formule bell’e predisposte, da applicare secondo canoni prestabiliti, fissi. “L’importante è che impariate a pensare, a inquietarvi”, raccomandava il cardinal Martini.
La virtù della riconoscenza
La riconoscenza è disposizione d’animo verso molti “compagni di viaggio”. Alcuni in particolare hanno fatto da guida per intere generazioni. La loro biografia culturale è espressione di un profondo sentire personale e insieme specchio di momenti di grande travaglio. Anche la nostra storia analitica vissuta con Adriana si impasta di riconoscenza verso taluni “compagni di viaggio”. Pensiamo a Dora Kalff, alle esperienze di Zurigo e di Zollikon, a Dieter Baumann, alla nascita dell’AISPT e dell’ISST, ai tanti anni al CIPA. Raccontare di sé, seguire il filo delle vicende e degli incontri sprigiona elementi di positività. Esponendoci, attestiamo i legami, confessiamo i debiti, esercitiamo la virtù della riconoscenza, professiamo l’intento di proseguire lungo un cammino condiviso. Le storie narrate sono terapeutiche. Aiutano a conquistare un’autocoscienza e contribuiscono a far crescere la consapevolezza di sé che la comunità di cui facciamo parte dovrebbe avere e a favorirne un’evoluzione. Il racconto ha una funzione catartica, preziosa per gli individui e per il gruppo. Le storie curano noi prima ancora dei nostri pazienti.
Son convinto che raccontare di sé e dei tempi, degli accadimenti e dei “compagni di viaggio” è praticare una sorta di esame di coscienza: soggettivo e generazionale. Il contatto con ricordi e vissuti è un’operazione non neutrale. Maneggiare gli oggetti psichici, individuali e collettivi, comporta di avere una visione etica. Se non disponiamo di una scala di valori, risultano alterate le condizioni di incontro, ascolto, accoglienza, comprensione, assunzione in carico di quanto viene dal profondo, abita la mente, ispira i comportamenti. La pratica analitica è banco di prova continuo del legame necessario tra lavoro psicologico ed eticità, tra psiche e storia.
Con i “compagni di viaggio” sperimentiamo che il cammino può essere accidentato. E molto! Esistono interconnessioni serrate fra gli stati di pericolo, distruttività, caos e l’instaurarsi di relazioni strette, solide, dedicate. La plasticità della psiche ci è maestra. Sono relazioni talvolta stabilite “per la vita”, come ad esempio, con espressione icastica, si è soliti qualificare l’intensità empatica di un’amicizia. Teniamo ben fisso nella mente che la SPT si è consolidata a cavallo tra Anni ’70 e ’80, gli anni della mia formazione e di quella di molti di noi, tappe attraverso le quali si è cementata l’amicizia con Adriana. Rimando alla drammaticità di quei passaggi: la minaccia nucleare e di nuovi conflitti; l’affacciarsi del Terzo e del Quarto mondo; il bisogno di giustizia sociale; i pericoli per l’ambiente; il riscatto della donna; il terrorismo da noi.
Una delle rivoluzioni di Jung e della Psicologia Analitica è la consapevolezza che la psiche dispone di un meccanismo di autoregolazione. Questo si attiva nel momento in cui ci misuriamo con ostacoli, rischi, intimidazioni e ci disponiamo a correlare provocazioni e reazioni alla ricerca di un’ulteriore possibilità di composizione dei conflitti. Attraverso quel pertugio potremo cercare di adattare le mosse ai timori, nel tentativo di individuare una via di scampo, di salvarci. Scopo della psicoterapia è, in fondo, di assecondare, accompagnare, garantire tale funzione autoregolatrice.
In noi scatta l’allarme e lanciamo un appello al nostro interno quando l’esistenza stessa viene minacciata. Lavoriamo perché si mobilitino e convergano a raccolta le energie psichiche disponibili. Il profilarsi però di condizioni estreme suscita ricerche in un clima di “emergenza”, si va alle “riserve” contenute nel profondo. Allora attingiamo a risorse impensate, sufficienti a fornire i supporti necessari a che si stabiliscano condizioni in grado almeno di assicurare la sopravvivenza. Il meccanismo di autoregolazione è l’aspetto, diciamo così, di governo delle spinte contrapposte. L’obiettivo che in realtà la psiche persegue è ambizioso: è l’autoguarigione. Questa finalità dell’apparato psichico induce a sviluppare intraprendenza e capacità di iniziativa. Essa fa fronte agli attacchi, contiene gli effetti potenzialmente distruttivi, sopporta la situazione critica e conduce alla ricerca di piani diversi su cui assestare nuovi equilibri e all’individuazione di strade che consentano il cambiamento. Che sarà una trasformazione interiore, condizione di ogni proposito del soggetto di incidere su rapporti, cose, situazioni. Il viaggio e gli incontri che si hanno sono il luogo ideale per sperimentare il cambiamento interiore e di visione d’assieme. Ce lo ricordano ancora la Commedia e il Libro Rosso.
Rischio, creatività, polis, amicizia
Sono fonte di creatività per l’apparato psichico le situazioni che mettono a rischio la stabilità emotiva degli individui oltre la vita e le cose. I conflitti nostri e, sul piano collettivo, i momenti di disordine, di caos, di stress, la guerra insomma quale evento limite che rende esponenziali i fattori di rischio possono tutti ispirare spunti di invenzione. L’imperativo diviene il “cavarsela”: per sé e per il sociale. Le dinamiche dello sviluppo non sono così lineari come una descrizione schematica potrebbe far apparire. Del pari si può dire che il coinvolgimento nella crisi consente al soggetto di reagire a scompiglio, indeterminatezze, angosce, insidie mettendo in atto tentativi, che portano a saggiare, sviluppare e a consolidare una vera e propria creatività relazionale, oltreché individuale, a noi forse più nota e vicina. Gli sbocchi saranno, ovviamente, diversi, a seconda delle intenzioni e degli impieghi che una persona fa. Nel valutarne impiego ed esiti occorrerà alla fine tenere conto del profilo etico entro cui ci muoviamo.
Lavorare con la psiche vuol dire anche contestualizzare. Allora, ricordiamo che il “Gioco del mondo” messo a punto da Margaret Lowenfeld, la metodica da cui Dora Kalff ha tratto ispirazione per inventare la SPT, nasce dalla cura dei bambini traumatizzati dal conflitto russopolacco a cavallo tra gli Anni ’10 e ’20. Ci portiamo dentro quell’imprinting. Il gioco è una risposta costruttiva e liberatoria al caos. E per quanto le storie individuali determinano il nostro impianto psicologico non dimentichiamo che Dora Kalff s’è recata da Jung nel primo dopoguerra.
C’è uno spazio specifico che si candida a luogo deputato nel far emergere i contenuti latenti dell’animo umano; è lo spazio politico: la polis, l’aggregazione, la convivenza. Lì riportiamo alla luce, liberiamo e organizziamo energie che sembravano sopite o distrutte dal caos. Adriana aveva a cuore la dimensione istituzionale, aspetto codificato del politico, cioè del governo delle relazioni e dei bisogni collettivi. Pensiamo all’apporto al CIPA e alla fondazione dell’AISPT.
Dove convergono diverse istanze, a quel crocevia, sta la politica. Per l’universo psichico essa è il luogo in cui “privato” e “pubblico” provano a misurarsi. Lì si rende possibile la coesistenza e la crescita tra persone diverse dal punto di vista degli assetti sociali, ma uguali nella sostanza. Il proposito e l’attitudine a “stare insieme”, l’elaborazione di obiettivi e la predisposizione delle regole necessarie a conseguirli sono ciò che rende possibile la polis.
Scriveva Hanna Arendt che le cose di questo mondo “non diventano umane se non nel momento in cui possiamo discuterne con i nostri simili”. Cioè quando esercitiamo i nostri diritti e doveri di cittadini. Vale per i tempi antichi e per l’oggi. Nel lessico della Psicologia Analitica di Jung verrebbe da dire un “archetipo” del modo di stare assieme, della polis. A patto che intendiamo la parola nella valenza simbolica e dinamica, cioè alla stregua di un nucleo energetico di tipo culturale che la psiche collettiva ha mantenuto ed elaborato nei millenni, cui si può attingere.
Oggi è difficile cogliere “la rilevanza politica dell’amicizia”, evidenziata dalla Arendt. In effetti siamo abituati “a vedere nell’amicizia solo un fenomeno di intimità”, in cui gli amici aprono la loro anima senza tenere conto del mondo e delle sue esigenze, dei tempi e di ciò che comporta viverli.
Scriveva Agostino: “E voi dite: sono tempi difficili, sono tempi duri, tempi di sventure. Vivete bene e, con la vita buona, cambierete i tempi; cambiate i tempi e non avrete di che lamentarvi”. Ecco: la responsabilità personale, soggettiva, il farsi carico dei “tempi bui”. Lavoriamo a livello sia individuale sia collettivo al costituirsi di relazioni solidali e al formarsi di rapporti ad alta tonalità affettiva, su cui si innestano esperienze di amicizia.
Il “condividere il mondo con altri uomini” mobilita energie insospettate, porta al crearsi di campi relazionali buoni. Coltivare la funzione della memoria è vitale. L’universo psichico non riesce a tollerare il vuoto. Gli spazi che si venissero a creare verrebbero riempiti da riflusso. La contrazione di investimenti ideali produce effetti regressivi. Quando non si asseconda la naturale tendenza evolutiva si dischiudono pericolose aree di coltura per apprensioni e angosce verso le incognite, di avversione alla trasformazione.
Senza memoria è notte della psiche
Cala la notte sulla psiche se si affievolisce la memoria. Al pari, senza speranza vivere non è altro che un lento morire. Un uomo che non attinge al patrimonio di esperienze e di sapere comune e proprio è un essere per il quale il domani è oscuro, esposto a spinte irragionevoli, sollecitato da ripiegamenti, voglia di mollare e di accomodarsi su quanto raggiunto sino a quel momento. L’oblio della coscienza rammemorante rende labili e confusi i punti di riferimento, porta sofferenza, tanto più acuta quanto non riconosciuta. Essa può venire contenuta entro i termini del disagio, ma non è raro che conduca a dissociazione nel singolo individuo e nella comunità degli uomini. Gente adeguata magari nei modi, ma cariata, inconsistente, gracile, vuota.
Un Io senza radici non si misura su visioni ideali, non si confronta nemmeno con le pesantezze o le avversità che rendono il cammino accidentato. Tutto è piatto e uguale, nulla può subire mutamenti. Trasformare è impossibile, l’etica è un non senso. Ma non ha senso nemmeno il nostro lavoro di analisti; a quel punto è vano.
La disgregazione prende dimora dentro le persone e nelle loro relazioni se i legami con il tempo si allentano. Il non aver memoria porta insicurezza, angoscia, appesantimento. Allora, nel momento in cui il malessere diviene insopportabile, un meccanismo di autodifesa proietta sull’esterno le cause, sugli altri; su di essi si punta l’indice come fossero forze ostili, origine dei mali nostri e della comunità. Si pensi all’ostilità verso gli immigrati e alla rimozione di quando gli emigranti eravamo noi. Cova il risentimento e si allunga l’ombra sinistra di persecuzioni e paranoie individuali e collettive. Nell’intimo, però, possiamo elaborare antidoti al potere corrosivo con cui rapporti piatti e incolori intaccano la mente.
Amicizia e memoria sono sorelle. Riconoscere tale unione crea lo spazio in cui le generazioni s’incontrano e psiche individuale e psiche collettiva traggono alimento dalla dinamica relazionale per affrontare le difficoltà, andare avanti. È l’affidamento alla forza della vita, la consegna della speranza. Ma ricordiamo: alius seminat, alius metet; qualcuno semina, altri raccoglie. C’è un tempo per seminare e uno per mietere. Sulla scia di Adriana Mazzarella, che ha posto Dante al centro della ricerca d’una vita, voglio ricordare un poeta, un amico molto caro: David Maria Turoldo. Turoldo ebbe l’energia di dettare un libro poco prima che il male prendesse il sopravvento: Una vita per gli amici. Quelle pagine sono un “manifesto” del pegno che un “compagno di viaggio” contrae con quelli con cui ha camminato al fianco, quelli che sono già venuti e altri che verranno.
“Per capire i tempi bisogna ascoltare cosa dicono i poeti. Per sapere cosa patisce il mondo bisogna interrogare i poeti”, ammoniva. Della poesia Turoldo coglieva l’originario significato: poieo, plasmo, faccio, costruisco, creo. È probabile che anche a causa di ciò la voce dei poeti è spesso vista come canto destinato ad echeggiare nel deserto, al pari degli antichi profeti. Turoldo aveva cantato nella Ballata della disperazione:
Sono la bellezza che vi salverà
l’inascoltata e profanae “inutile” bellezza.
Mi sono amici solo i fanciulli
ancora per poco liberi
agli orli delle vostre città:
avanti di apprendere
a leggere e a scrivere.
Turoldo “compagno di viaggio” ci aiuta a traghettare su una riva dalle sponde impervie, non però inospitali. Modalità simile a Dante. L’approdo richiede perizia e sagacia nell’accostarsi, coraggio e circospezione quando si attracca. Abbandono fiducioso nel momento in cui si mette piede sulla terra ferma. Quando il male incombeva, il frate-poeta mi confidò: “La società di oggi ha bisogno di uomini che si candidino ad essere punti di riferimento per gli altri uomini”. L’appello a una disposizione corale di generazione in generazione traeva linfa da una vita intera. Confessava, Turoldo, di aver prediletto l’esser “compagno di viaggio, itinerante, il pellegrino che poi, dal punto di vista del profondo, è cercatore, indagatore”. Ritornano il cammino di Dante e Alla ricerca di Beatrice di Adriana Mazzarella. Turoldo aveva creduto molto nel lavoro interiore. In tempi pacelliani per la Chiesa, aveva promosso la traduzione italiana di Dio e l’inconscio, del domenicano p. White, testo cui Jung fece la prefazione. Specificava il frate-poeta: “Non c’è mai stato un punto fermo. Men che meno Dio è un punto fermo. E’ spostabile sino all’infinito”.
L’Io da solo, però, non può reggere la sfida dell’infinito. Deve aver coscienza dei limiti costitutivi della sua natura. Ha bisogno di un bagno di umiltà per provarci, deve chiedere aiuto, disporsi lui per primo alla collaborazione. Allora potrà puntare all’”oltre”, all’altro da sé. La psiche umana è un sistema basato su equilibri fra parti diverse in continuo assestamento e il procedere non consente scorciatoie. Allora diciamo che l’Io deve fare i conti con il suo essere de-finito, se vuole tendere all’in-finito.
Nel nostro lavoro quotidiano vediamo che l’Io riconosce la sostanziale sterilità dell’autosufficienza e, in positivo, si rende conto di far parte di una totalità psichica che chiamiamo Sé. Il Sé che sta al centro della ricerca di Adriana Mazzarella, sulla scia di Jung e di Dante e di tanta spiritualità. Nel Sé, oltre al potente Io, abita l’inconscio, rappresentazione di ciò che non sappiamo, non controlliamo, non determiniamo e che, d’altra parte, tanto peso ha nella vita.
Quanto più l’Io diviene consapevole della dinamica tra le parti presenti nella psiche, tanto più asseconda e guida il dilatarsi degli orizzonti interni ed esterni alla mente. E tanto più crea lo spazio perché finito e infinito possano incontrarsi, aprirsi a una relazione potenzialmente amicale, tendersi la mano.
Amicizia presentimento dell’amore di Dio
Simone Weil è la persona che ha offerto un’esposizione toccante del rapporto dell’amicizia con l’Assoluto. Al culmine della sua ricerca interiore la Weil dirà che l’amicizia: “è un presentimento e un riflesso dell’amore di Dio”. Lei che aveva avvertito “la mia vocazione mi impone di restare fuori dalla Chiesa”, ovvero – come disse un suo grande amico, p. Jean Marie Perrin – che si era “incaricata di ricordare al mondo il prezzo della verità: non si acquista la verità con idee o discorsi, ma a prezzo di se stessi”, toccò vertici ineguagliabili proprio nell’attente de Dieu. Nell’”attesa di Dio” delineò per l’amicizia la funzione d’essere un anticipo di eternità. E qui non posso che rinviare allo spirito profondamente religioso di Adriana Mazzarella, così vicina a Dora Kalff in tanta intima disposizione al sacro.
L’immagine biblica del Libro dei Proverbi a proposito della Sapienza dice: “Allora io ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, mi rallegravo davanti a lui ogni istante”; ludens cum eo, giocando con Lui dice la “Vulgata” di San Gerolamo. Ecco, mettiamo l’amicizia insieme alla Sapienza mentre accompagna l’opera del Grande Architetto. Questi, nella famosa immagine di Michelangelo, protende le dita verso quelle dell’uomo che attende di essere tratto fuori dalla pesantezza della sua condizione e cerca la scintilla divina che ravvivi la brace dentro di lui pronta. Giocare con la Sabbia, metter le mani nella terra, plasmarla con l’acqua, metterci il calore del corpo e l’alito, lo Spirito che ci è dato, è ripercorrere i passi della Creazione.
Nel viaggio le tappe sono punti di arrivo e di partenza. La Weil ci ha introdotto in un paradosso che abita la psiche: la solitudine nel perseguire i compiti cui ci sentiamo chiamati e il bisogno di relazioni nel compiere il cammino; la sperimentabilità tutta umana dell’itinerario di crescita, di autocoscienza, di quello che la psicologia analitica chiama “processo di individuazione”, cioè di realizzazione di sé appieno come in-dividuo, e la consapevolezza altrettanto netta di un comune destino. Viviamo anche per gli altri e, tutti insieme, partecipiamo a una storia che non finisce nelle vicende di ciascuno, né esaurisce i suoi significati entro gli orizzonti a misura nostra.
Ogni giorno la storia ci pone interrogativi molto seri su ciò che sta al di là di noi, sopra di noi. Facciamo nostro il monito di Turoldo, che invitava a interrogare i poeti, affidiamo la parola conclusiva di queste riflessioni a Giuseppe Ungaretti:
Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.
Ecco, quel “crescere dell’erba” è la musica lieve che guida i passi dei “compagni di viaggio” e segna il cammino. Che lo vogliamo o meno la memoria di loro abita la nostra mente ed essi ci camminano accanto. Ci sono di sostegno con la delicata forza di un amico quando tendiamo alla speranza.
Nella sua città, Milano, ma non solo in Milano, ha avuto cura di istruire e far crescere molte generazioni di terapeuti. Se nell’insegnamento ha messo ‘l’impegno ed il rigore derivante dai suoi approfonditi studi di psicoanalisi e psicologia del profondo, nel suo lavoro di terapeuta ha posto anche quell ’amore e quella tensione spirituale che illumina solo chi, con sofferenza e fatica, accetta di percorrere un cammino individuativo. Il pensiero di Jung, le sabbie di Dora Kalff la poesia di Dante, il poema Bhagavad Gita ed il sentimento della musica l’hanno accompagnata nel suo lavoro, aiutata e confortata nel suo lungo ed intenso cammino di vita.
Anche se tutti noi, parenti, amici, allievi colleghi sentiamo profondamente la sua mancanza, avvertiamo anche che i semi da lei sparsi in tutti questi anni fioriranno e daranno buoni frutti in futuro. Compito di chi rimane è comunque quello di custodire con cura e far germogliare l’eredità che Adriana ci lascia.