Da Amos Oz alla Terapia della Sabbia

di Giuliana Bitelli

La faziosità non aiuta a conoscere e a comprendere la complessità. La faziosità è oggi voluta fortemente da un modello di discussione contemporanea basata sull’affermazione non di idee ma di argomenti manipolati, spesso falsati, studiati ad hoc ma comunque sempre parziali, unilaterali e faziosi, quindi utili a consolidare la fazione, non a comprendere e a superarla.

Come ha detto Marino Sinibaldi nella puntata del 27 ottobre 2023 di Timbuctu un podcast del Post che parla con i libri, “è difficile sfuggire a questa logica ma non impossibile: dovremmo leggere molto, ascoltare testimonianze varie e avvicinarci a posizioni diverse (e la nostra cultura ne è ricca), aprire gli orizzonti del nostro conoscere, per poi costruire una nostra posizione non faziosa ma rispecchiante la complessità. In questi anni si sono raccolte le voci di un folto gruppo di scrittori israeliani, grandi sul piano letterario, indispensabili su quello politico: esse possono contribuire al nostro conoscere e incontrare la complessità”.

Tra i grandi scrittori israeliani del nostro tempo Amos Oz ha un posto del tutto particolare; Sinibaldi ci ricorda innanzitutto per la sua storia: “nato a Gerusalemme nel ’39, figlio di ebrei immigrati dall’Europa orientale prima ancora della guerra e della Shoah, appartiene interamente alla tradizione sionista”; e poi per quel tono della sua scrittura e della sua persona, “un tono che potremmo associare al cognome che si è scelto, abbandonando quello familiare e inventandosene un altro, appunto quello famoso nel mondo, Oz ovvero forza”. C’è forza, infatti, anche brusca nelle cose che Oz scrive e in quelle che dice, sia nei saggi e negli interventi storico-politici sia nei suoi prodigiosi romanzi. C’è forza, c’è il coraggio di sfidare idee correnti, di mettere in discussione le proprie e anche quelle della tradizione laburista che abbracciò contro la sua famiglia da giovanissimo, una sfida che ha affidato a un ultimo libro, Cari fanatici nel quale ha cercato di condensare, come lui stesso dice, il pensiero di una vita intera.

Ma ora noi abbiamo a disposizione, tradotto da Elena Loewenthal e pubblicato da Feltrinelli, un testo ancora più estremo per così dire, ancora più sintetico ed essenziale, l’ultima lezione che Amos Oz tenne, già gravemente malato e consapevole della sua condizione, all’Università di Tel Aviv il 3 giugno 2018, appena sei mesi, dunque, prima della sua morte. Si intitola Resta ancora tanto da dire. Testo straordinario, dice ancora Sinibaldi, è una sorta di distillato essenziale, secco, lucido del pensiero di Oz, scritto e detto in quel modo potente, forte, che Oz aveva di scrivere e di parlare.

Cosa dice in questo libretto, tanto nitido quanto attuale (sembra scritto poco prima del 7 ottobre, un attimo prima della ripresa più violenta e feroce del conflitto Israelo-palestinese e del pogrom nei kibbutz e delle bombe su Gaza): due cose sostanziali.

La prima: “fra noi e i palestinesi c’è da più di cent’anni una ferita aperta, anzi c’è una ferita infetta, un ascesso ormai. Ma non si cura una ferita con un bastone”, questo dice e scrive Amos Oz: “non è ammissibile continuare a infierire in questo modo su una ferita aperta, sperando che così si rimargini, che la smetta di sanguinare” (p.12). Ma attenzione, ci mette in guardia ancora Sinibaldi: prima di prelevare questa frase e metterla al servizio delle fazioni della discussione in corso, dobbiamo ascoltare il resto che Oz dice: “in realtà io non ho nulla contro il bastone, di per sé. Non sono un pacifista […] io non ho mai pensato che la violenza sia il male assoluto del mondo. […] credo ancora oggi che il male assoluto stia nell’aggressività, nella sopraffazione. E la sopraffazione non di rado va fermata con la forza”. (p.13)

“Due mie lontane parenti, giovani ebree tedesche, trascorsero anni nei campi di concentramento nazisti, e coloro che le liberarono dai nazisti non erano degli attivisti pacifisti con i loro slogan di ramoscelli di ulivo e colombe, ma soldati Alleati con tanto di elmetto e mitra. Non me lo dimenticherò mai. Per questa ragione non sono un pacifista bensì un combattente per la pace, un paladino della pace, perciò non sono di principio contrario a un bel bastone”. (pp.13-14)

Ma, aggiunge ed è cruciale: sono cent’anni che tutti i sapientoni del mondo ci dicono: dai, un’altra botta e si chiude la faccenda, tutto va a posto. No. Una ferita va curata. Non la sicura in un giorno, e neanche in una settimana. Ma a un certo punto bisogna pur cominciare. Si cerca il punto di partenza per iniziare a curare la ferita. Prima di tutto bisogna trovare la lingua della cura. Che non è quella dell’oppressione, né quella della deterrenza, non è la lingua del “dare una lezione” e neanche quella del “una volta per tutte” e del “se lo buscheranno di santa ragione”. È la lingua della cura. La lingua della cura comincia quando rivolge queste semplici parole al tuo avversario-sì, al tuo nemico: “lo so, ti fa molto male, capisco”. […] “soffri. Lo so. Soffro anch’io. Su, ricominciamo insieme”. Parole semplici. Banali. […] Basta dirle, e dirle nel modo giusto. Questa è la prima cosa. Una ferita non sicura con il bastone.” (pp.14-15). Sono necessari forse atteggiamenti solidali e cooperanti.

La seconda cosa che dice Oz nel suo libro: non crede nello stato multietnico, non crede negli stati multietnici. Ogni tentativo da parte di etnie che si sentivano contrapposte, in ogni altra parte del mondo, è andato a rotoli, è affogato in un fiume di sangue. O finisce con il sangue che scorre a fiumi o finisce – unico esempio nella storia moderna – come quando il popolo cieco e quello slovacco hanno deciso di separarsi pacificamente in due Stati. Magari potesse essere così per noi. Ma loro ci sono riusciti, hanno portato a compimento il loro divorzio in modo esemplare e senza spargimenti di sangue.” (pp.17-18). Se palestinesi e israeliani combattono una guerra legittima per essere popoli liberi in una propria terra che li accoglie, combattono anche la guerra riprovevole di annientamento dell’altro popolo in modo che non goda dello stesso diritto che difende per sé stesso. Oz propone da sempre la soluzione “due popoli due stati”, separando poteri, governi, leggi, culture, abitudini, tradizioni.

Siamo disorientati nella comprensione di ciò che accade e di ciò che potrebbe essere la cura giusta di un conflitto ormai centenario, che anzi affonda le sue radici nell’antichità.

Come ci ricorda Sinibaldi, in questo ultimo testo che ci ha lasciato prima di salutare il pubblico della conferenza e prima di salutare tutti noi, Oz si chiede come avere fiducia e speranza dunque; ci sono una ragione e un sentimento che ci consegna: la ragione è quella che non ci sono alternative alla soluzione “due popoli due stati”. Si tratta di dire alla gente quello che nel profondo dell’animo sa già, sarà difficile, complicato, doloroso (usa questi tre aggettivi, difficilecomplicato e doloroso) ma facciamolo una volta per tutte!

Il sentimento ha a che fare con la natura umana: l’essere umano è una creatura imprevedibile, le persone possono sorprendere, non solo gli altri ma anche se stessi. Possiamo affidare non solo le nostre speranze ma soprattutto la nostra saggezza a un’idea di umanità che si muove, non rimane paralizzata nella propria posizione, nella propria trincea, nel proprio pregiudizio, come invece appare ora.

Questo intreccio di realismo e speranza, di saggezza e poesia, dice Sinibaldi, è la grandezza di Amos Oz, qualcosa che ci consegna di particolarmente prezioso, adesso che non c’è più e viviamo uno dei momenti più drammatici di questo conflitto, per i livelli di violenza e anche di faziosità.

Dopo avere ascoltato Sinibaldi e soprattutto Oz e la sua forza, ora ci domandiamo, noi terapeuti della psiche: come possiamo utilizzare e applicare questi pensieri e stimoli, noi conoscitori di emozioni e difese, specialisti di profondità dell’anima e di simboli, dinamiche intrapsichiche e collettive, esperti di Sandplay e di costruzione materica di scene interiori? Come possiamo intervenire in questo momento così cruciale della storia stando a fianco di quella barbarie pubblica nella nostra “tranquilla democrazia”, soprattutto all’interno del nostro lavoro privato, silenzioso, ritirato, protetto e intimo? Che ruolo possiamo assumere con responsabilità e coscienza per far parte di quella speranza e saggezza?

Ritengo molto difficile esprimere ciò che sento richiedermi dalla storia, dalla furia degli eventi, già iniziati con la guerra in Ucraina e anche dalla diffusione del Covid.

Vorrei partire dalla premessa che i conflitti come gli amori generosi si annidano e fermentano all’interno della psiche umana, trovano il loro crogiolo nell’intimo di ciascuno di noi; hanno risonanza all’esterno se diamo loro spazio e occasione di manifestarsi fuori, grazie ai nostri comportamenti e alle nostre scelte. Siamo noi i portatori dei germi originali degli odi agìti contro gli altri, è ciascuno di noi che sceglie di procedere a distruggere l’altro o a mediare e salvarci.

Come possiamo noi terapeuti, nelle nostre stanze di analisi, operare contro la guerra agìta, contro la sopraffazione ineluttabile; come, nel nostro piccolo e silenzioso angolo di lavoro insieme ai nostri pazienti sofferenti, possiamo mettere semi fecondi per dare segni e sogni diversi da bombe e attacchi feroci?

Allora il mondo è tutto carbone e cenere / i miei tegami non servono alla fame” (Gualtieri, 2006): è questo il nostro scarso equipaggiamento? La nostra condizione di cittadini del mondo e professionisti dell’individuazione?

Forse possiamo lavorare dentro il crogiolo alchemico per combinare materiali fertili, utili a ciascuno dei pazienti che si affidano a noi.

Un frutto è sempre un bacio dentro l’altare del seme” (Gualtieri, 2006).

Forse possiamo coltivare e difendere la nascita della vita psichica, la spinta e l’urgenza della trasformazione interiore e profonda, la bontà e caparbietà della madre che protegge i suoi nuovi nati. Possiamo costruire una saggezza di dinamica psichica, di imprevedibilità, di creatività feconda (con le mani, con la sabbia) che muove le fissità, le rigidità, tutte quelle posizioni polarizzate che non vedono l’altro polo, che lo ignorano e lo eliminano, favorire quel guizzo-bastone che va in controcorrente e “violenta” la corrente dell’incoscienza, la passività, l’acquiescenza ai demoni, la sudditanza alle leggi fatte da altri e da noi, poi, introiettate e subite. Possiamo favorire la coniunctio e il dialogo tra estremi contrapposti, tra l’ombra e la coscienza, non reprimere le parti sgradevoli e angoscianti; aiutare, piuttosto, a vivere e sperimentare la complessità della psiche umana e apprezzare la ricchezza del dialogo tra parti interne a noi prima che con gli esterni, significativi e non.

Il nostro compito è muoverci nei condomini multietnici dei nostri pazienti, aiutarli a incontrare tutti gli abitanti specie quelli più reconditi e ritrosi, aprire dialoghi e scommesse, giochi e confluenze, evitare lo spargimento di sangue metaforicamente inteso come il dolore dello scontro con paure, rimozioni, contraddizioni e difese strutturate.

Lasciamo alla politica la divisione netta tra due stati e due popoli e accettiamo che nella realtà di conflitti così immensi e antichi ci possa essere una parete spessa e impenetrabile che protegga l’uno e l’altro dei due popoli in lotta irrimediabile; con l’analisi e con il Gioco della Sabbia contribuiamo a costruire invece l’umanità nuova che abbraccia posizioni diverse, che supera la faziosità, che accetta la differenza come arricchimento, si fa portatrice di solida co-operazione e col-laborazione (nel senso etimologico latino di cum-laborare, lavorare insieme con altri).

Il coraggio di stare dalla parte della riflessione, la pazienza di aspettare i germogli, la tenerezza di accompagnare il processo di scoperta di se stessi: tre chiavi per aprire tre porte sulla saggezza della speranza.

Come sto bene… / col soffio s’accresce. / Venite in nascita dentro / tutte cose dei mondi. Sbalordite questo tutto finito… in un parto perenne” (Gualtieri, 2006).

Gualtieri M.: Senza polvere, senza peso, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006.

Oz A. (2004): Cari fanatici, Feltrinelli, Milano 2017.

Oz A. (2019): Resta ancora tanto da dire. L’ultima lezione, Feltrinelli, Milano 2023.

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