di Anna Maria Cester.
L’autore da cui parte la lettura del libro di questo numero di Orme può essere considerato uno dei principali intellettuali che si impegnano ad analizzare il pensiero occidentale per cogliere i nodi dove la nostra tradizione ha preso la deriva che l’ha portata verso la deriva antropocenica. Deriva di cui la guerra è il prodotto necrofilo più compiuto. Parliamo oggi di Edgar Morin ed in particolare del libro edito da Raffaello Cortina nel 2023, “Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa”.
Morin è una personalità intellettuale di spicco dei nostri tempi, che con i suoi 101 anni non solo rappresenta per noi l’esemplificazione di come una testa ben fatta giovi alla longevità e allo spessore morale, ma che in questo libro in particolare presta la sua riflessione a partire dalla sua esperienza di protagonista giovanissimo delle guerre e degli eventi che hanno segnato la storia europea e mondiale. Frutto di una vita addestrata con Metodo, questo piccolo e denso libro ci offre riflessioni sulla guerra attuale tra Ucraina e Russia (con cenni anche al conflitto israelo palestinese, che al momento della stesura non era giunto a questa ulteriore deflagrazione) che ci vengono presentati a partire dalle proprie esperienze. Esperienze trasmesse al lettore in una modalità memoriale che non occulta né a chi scrive né a chi legge, la tridimensionalità degli eventi che portano ad una guerra, così come le derive aberranti che si aprono negli umani in questi frangenti. Tridimensionalità che si può dispiegare in virtù di una onestà del pensiero che, potremmo dire con un linguaggio familiare, accoglie con dolore onesto la propria ombra personale; e tale azione metodologica sembra essere quel prerequisito fondamentale per dispiegare un pensiero capace di leggere le ombre del collettivo, senza farsi accecare dal manicheismo assoluto, dalle propagande menzognere, dalla criminalizzazione del popolo nemico. In questo esercizio di osservazione del mondo e di auto-osservazione, Morin ci mostra la “biochimica” del pensiero complesso che, nel cercare in se stesso, prima ancora che negli altri l’origine dell’errore di valutazione degli eventi e dell’illusione, si pone come l’antidoto essenziale per prevenire l’innesco di conflitti sempre più minacciosi. La guerra per Morin non è solo un fatto bellico o geo politico, ma un processo, un frutto che matura in tempi in cui domina un pensiero incapace di concepire la complessità dei fenomeni, un pensiero meccanicista, lineare che frammenta ciò che nella realtà è strettamente connesso. In una ottantina di pagine l’autore ci trasmette le lezioni che ha appreso da ottant’anni di storia, affinché, dice Morin, possano servirci ad affrontare il presente in tutta lucidità, a comprendere l’urgenza di lavorare per la pace, ed evitare la peggiore tragedia di una nuova guerra mondiale.
Accogliamo dunque l’invito di Morin, e come consueto per questa rubrica cerchiamo anche noi di riflettere se e dove il pensiero psicanalitico e quello junghiano in particolare, corrono il rischio di finire suo malgrado, in qualche secca riduzionistica.
Partiamo da casa nostra, come è giusto che sia con una citazione di un testo sicuramente presente nelle nostre librerie: “Un terribile amore per la guerra”, disponibile per la Biblioteca di Adelphi, in una ristampa recente.
Dopo una disamina tesa a ricercare le cause ultime della guerra, e un dialogo serrato con autori recenti e passati, nel far risalire la guerra alla natura umana, alla società, allo stato, ecc. Hillmann conclude così: “La guerra appartiene alla nostra anima come verità archetipica del cosmo. È un’opera umana e un orrore inumano, e un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere. Possiamo aprire gli occhi su questa terribile verità, e, prendendone coscienza, dedicare tutta la nostra appassionata intensità a minare la messa in atto della guerra, forti del coraggio che la cultura possiede, anche nei secoli bui, di continuare a cantare mentre resiste alla guerra. Possiamo comprenderla meglio, differirla più a lungo, lavorare per sottrarla via via al sostegno di una religione ipocrita. Ma la guerra in quanto tale rimarrà finché gli dèi stessi rimarranno.” A partire da queste conclusioni sicuramente molto sentite ed argomentate da parte di Hillmann, vengo colta nella rilettura del testo da un certo fastidio. Certa del fatto che ogni riflessione su pace e guerra risenta e racconti di quanto in noi, per un dato momento storico o per postura esistenziale, sperimentiamo circa la possibilità dell’una e dell’altra, e non solo come fine ultimo o necessità ineludibile, ma come senso che informa lo spirito e l’azione di sé come soggetti della storia personale e collettiva, sottolineo alcuni aspetti utili al procedere della riflessione.
Ma siamo proprio sicuri che, come junghiani, siamo tenuti a cercare e chiudere questioni così macroscopiche in cause ultime? Era questo il metodo che ci ha indicato Jung? Come ci ricorda Marco Garzonio in un articolo uscito per Frontiere “La guerra e Jung. Sognando la pace”, la novità della concezione junghiana della vita psichica – pagato al caro prezzo della rottura con il maestro Freud – è che viene concepita come intimamente legata alle concause che contribuiscono a formare l’uomo storico concreto. Jung, come noto, studiava le interrelazioni tra realtà psichica e religione, filosofia, sociologia. Era un uomo in dialogo con pensatori del suo tempo, cosa che lo aiutò sicuramente a tenere in tensione il rapporto tra coscienza e inconscio, cercando di non cadere in una concezione della psiche aprioristica o riduzionistica. Alla luce di questo, nel definire la guerra come archetipica stiamo andando nella giusta direzione?
Il carteggio tra Freud e Einstein, disponibile per Bollati Boringhieri sotto il titolo “Perché la guerra” è un’altra lettura importante per chi si interroga sulla difficoltà a sostenere la pace e sulla ricorrenza della guerra nonostante l’evidenza della sua perversione. Si tratta di un toccante scambio tra due pensatori che erano già stati profondamente segnati dalla guerra e dai suoi prodromi persecutori; Einstein commuove quando chiede a Freud il perché la massa si lasci infiammare da forze distruttive che la portano fino all’olocausto di sé (siamo nel 1932). La risposta ipotetica a questa domanda che Einstein sottopone al vaglio del vecchio professore è diversa da quella sopra scritta di Hillmann. Einstein dice: “Una sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in condizioni eccezionali, ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani”. Torniamo dunque alla ricerca del nocciolo ultimo, che, come la ghianda, anticipa in sé le condizioni latenti di ciò che andrà a seguire al verificarsi delle condizioni adatte. Ma qui le condizioni non vengono poste, e Freud, chiamato in causa come “l’esperto degli istinti”, risponderà secondo le aspettative di chi pone la domanda, spiegando l’esplosione della guerra o la possibilità della pace, come intrecci tra pulsione di morte – Thanatos – e pulsione di vita – Eros –; innati nell’uomo, vengono narrati lungo la loro evoluzione filogenetica e storica, e poi nella dinamica intrapsichica dell’individuo. Nel tentare di rispondere alla questione cara ad Einstein, così come a tutti noi, su come si possa prevenire la caduta in guerra, Freud legge il cammino della civiltà come una lotta perenne tra queste due forze, ed il modo in cui la civiltà può frenare la pulsione di morte, è dato da quel movimento che volge l’aggressività di ognuno verso l’interno, cioè verso l’Io. Il senso di colpa, l’angoscia sociale e la coscienza morale sono le armi di questo contenimento di Thanatos attraverso l’azione censoria del super Io. Azione tuttavia non sufficiente, a fronte di un’altra caratteristica ritenuta fondamentale da Freud per il progresso della civiltà, che è la conoscenza. Se quest’ultima rimane la nostra arma più attendibile ed importante per affrontare gli effetti distruttivi della pulsione di morte, d’altra parte nessuno può garantire la sua efficacia sociale, politica e storica. “A che cosa gioverebbe la più acuta delle analisi delle nevrosi sociali, visto che nessuno possiede l’autorità di imporre alla massa la terapia?” e ancora “fino a che punto l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttiva?” si domanda in Disagio delle civiltà (rispettivamente pag. 279 e pag. 280). Il quadro delineato da Freud si delinea profondo, ma così conclusivo e totalizzante da richiederci una valutazione e una discussione che mettano in una prospettiva critica le indicazioni dell’autore. Già Erich Fromm in Anatomia della distruttività umana, obiettava lo scenario determinato dall’alternativa tra aggressività verso se stessi e aggressività verso gli altri, suggerendo che il ritorno alla quiete non è il solo scopo biologicamente pre-determinato dall’organismo umano. Ma soprattutto per Fromm esiste un’aggressività difensiva che è innata, mentre l’aggressività veramente distruttiva, maligna e necrofila scaturisce dalla complessa interazione tra disposizioni innate e passioni radicate tanto nel carattere individuale quanto nelle condizioni sociali. Egli intende evidenziare che occorre sempre tenere in conto della peculiare complessità dell’essere umano, il cui agire non è mai spiegabile in termini puramente biologici o in un’ottica innatista. In termini di metodo, che la causa ultima venga naturalizzata o divinizzata, poco cambia; e forse più che dire qualcosa dell’oggetto della nostra ricerca – la guerra – racconta l’umanissima necessità di semplificare e sacralizzare le cause della serie di eventi e accadimenti difficile da leggere, decifrare ve anche sostenere che ci stanno capitando. Il problema potremmo dire seguendo Morin e Fromm, consiste nel verificare in che modo e in quale misura sono le condizioni specifiche dell’esistenza umana a determinare la qualità e l’intensità della voluttà umana di uccidere e torturare. Accogliendo lo spostamento di prospettiva qui suggerito, non si attenua la radicalità della concezione psicanalitica, ma la si ricolloca in una prospettica sociale e storica. Si è prodotta in questo momento storico una forma di società che perverte in senso maligno l’aggressività umana. In questa lettura, dunque, la guerra non è un archetipo, ma un sintomo. E qui si apre il secondo aspetto della riflessione: come incide in questo momento storico la nostra società sul processo individuativo personale, e in particolare rispetto ai soggetti in età evolutiva? E come possiamo influire profondamente sulla società tramite un atto educativo? Conosciamo le malattie del corpo, con qualche difficoltà le malattie dell’anima individuale, ancor meno delle malattie del pensiero e delle ideologie per come si esprimono collettivamente. Eppure, anche le idee della mente sociale si ammalano, talvolta si irrigidiscono talvolta si assopiscono, talvolta si spengono. E siccome la nostra vita è regolata dalle nostre idee, di loro dobbiamo avere cura non tanto per accrescere il nostro sapere quanto piuttosto per metterlo in ordine. E il primo modo per tenerle ordine è attraverso la messa a critica di certe idee che per ragioni biografiche, culturali, sentimentali o di ideologia, fino alla propaganda, sono così radicate in noi da agire come dettati inconsci che non sopportano critica, né verifica. E non perché siamo tutti rigidi o dogmatici, ma perché non li abbiamo messe sufficientemente in discussione, non li abbiamo guardate da vicino. Edgar Morin definisce queste idee miti, mai attraversati da un percorso di pensiero e coscienza, di de-mitizzazione. A differenza dei pensieri che pensiamo, le idee mito ci possiedono, nel senso che ci orientano con mezzi che non sono logici, ma psicologici e quindi radicati nel fondo della nostra anima, dove anche la luce della ragione fa fatica ad arrivare e ad avere presa. Ma occorre risvegliarci dalla resa a questi miti collettivi, perché molte sofferenze, molte inadempienze ed inadeguatezze, molti disturbi nascono non solo dalle emozioni di cui si fa carico la psicoterapia individuale, ma dalle idee incistate nelle pieghe dei nostri pensieri, credenze e prassi operative, che non ci consentono di comprendere bene il mondo in cui viviamo, soprattutto nei rapidi cambiamenti come quello che stiamo vivendo. Mondo di cui i media ci informano abbondantemente, ma senza darci nella maggior parte dei casi strumenti critici che ci consentano di intravedere quali idee sottendano nei discorsi e su quali dobbiamo orientarci per capirlo. Per recuperare la nostra presenza al mondo, e non girare come fantasmi stremati ed esangui, dobbiamo rivisitare i nostri miti, sia quelli individuali che quelli collettivi, sottoporli a critica, perché i nostri problemi sono dentro la vita e la nostra vita vuole che si curino le idee con cui la interpretiamo, tanto quanto le ferite infantili ereditate dal passato che ancora ci trasciniamo dietro. È dunque compito dell’educazione aiutare ad aprirsi alla crisi, a riconoscere l’inadeguatezza rassicurante, ma disorientante di idee mito che non sono funzionali. Un esempio per tutti: da anni siamo resi spettatori di una tambureggiante istigazione alla caccia al nemico, a volte ostentatamente rivolta a gruppi etnici su cui incombono ombre collettive multiple, a volte su prassi come le vaccinazioni, o sull’esistenza stessa del coronavirus. Cioè si è pienamente avvalorata una modalità di affrontare questioni tragiche o problemi complessi, che ha qualità paranoiche e proiettive, dove l’altro ideologico che non aderisca pedissequamente al progetto e al proprio discorso è subito NEMICO. O CON ME O CONTRO DI ME.
Concludendo, la nostra società è diventata molto potente, in grado di imporre ai suoi membri, tramite i meccanismi dei social, un orientamento culturale di una forza tale da offuscare la moralità ed il discernimento individuale dei suoi membri che, a causa di tale condizionamento, si possono ritrovare privati della propria capacità riflessiva. E questo meccanismo risulta essere pericoloso in quanto suggestivo, ma poco formativo per lo sviluppo individuativo dei suoi membri, in particolare per i soggetti con mente e psiche in formazione. L’uomo del nostro tempo è pervaso da un senso di paura, inserito in una realtà sociale dove le crisi sembrano ingovernabili e la precarizzazione della vita incontrastabile. E non da ora. Ed è proprio il senso di angoscia e disorientamento dell’uomo moderno a portare a una serie di reazioni pericolose sul piano psichico, a favorire processi di patologia. In questi, il sentimento o la premonizione di un pericolo e di un’insicurezza esistenziali coesistono con la sicurezza di un IO che crede di poter fare, sapere e organizzare ogni cosa, allontanando in questo modo la necessaria capacità integrativa indispensabile nel processo formativo di una piccola mente, per tornare al punto di partenza. La pratica di un’educazione illuminata può essere vista in questa prospettiva come un processo che si oppone alla distruzione di senso e alla ricerca di un capro espiatorio operata dalla cultura dominante, salvaguardando, come una specie a rischio d’estinzione, l’unicità dell’individualità umana e della sua capacità riflessiva. Solo nella protezione delle capacità riflessive e in un consapevole senso di responsabilità rispetto alla realtà, nell’esempio e nei fatti sia possibile educare ad aprirsi all’incontro con l’altro e contemporaneamente a sentire, pensare e immaginare la nostra presenza pacificamente nel mondo, anziché subirne inconsapevolmente il suo dominio diseducativo e la sua violenza.