di Giuliana Bitelli.
La fotografia risveglia
un sentire istintivo e irrazionale che commuove,
riempie di forza la vista,
penetra dentro di me a una profondità
e con radici
che non conosco.
Barthes, 1980
Questo articolo, che esce nella rinata rivista Orme della Sandplay Therapy, può stimolare noi terapeuti e analisti del Gioco della Sabbia a chiederci come fotografiamo i quadri di sabbia dei nostri pazienti, che atteggiamento abbiamo, quali particolari ritroviamo, partendo dal presupposto che per noi la fotografia della sabbia è un gesto fondamentale del nostro percorso terapeutico con il paziente: attraverso la foto del quadro di sabbia fissiamo la composizione delle miniature e fissiamo l’effetto dei gesti e del vissuto del paziente; e allora possiamo chiederci, come spettatori, che cosa vediamo ma soprattutto, come fotografi, che cosa ci accade quando scegliamo l’angolazione, il fuoco, la luminosità, i contrasti, l’inclusione o l’esclusione dal quadro di particolari scelti dal paziente. Potrà quindi aprirsi una strada di ricerca in tal senso, potrebbe iniziare uno scambio proficuo su questo tema e potranno profilarsi orizzonti ancora non affrontati da noi analisti.
Si può guardare una fotografia, dice Barthes, come una fonte di informazioni: storiche, geografiche e culturali o di costume di un popolo; oppure, di fronte a una fotografia, si può avere un atteggiamento di preghiera meditativa, silenziosa e privata in attesa che eventualmente un particolare colpisca l’osservatore, un particolare inaspettato che però cambia il valore della fotografia e l’ottica in cui la si guarda; allora la fotografia da informatrice interessante diventa una fotografia-verità con un particolare significativo che colpisce.
Barthes nel 1960 scrive di fotografia per un pubblico giornalistico; vent’anni dopo scrive La camera chiara come testimonianza di un suo percorso; nell’intervallo di quei vent’anni focalizza domande precise: che cos’è la fotografia? Qual è la sua essenza? C’è una sua universalità?
In quell’arco di tempo Barthes sviluppa un desiderio “ontologico” di sapere cosa sia la Fotografia “in sé”, di scoprirne l’”universale”, il suo “genio”; perciò cerca di rispondere alle sue domande analizzando le varie categorie della fotografia, individuate ed elencate dai molti scrittori di questa materia: empirica, retorica, estetica; oppure considera alcuni approcci usati nei testi di fotografia: tecnico, storico, sociologico.
Ma scopre ben presto che tutto questo non lo interessa, cioè non lo porta alla risposta che cerca. Successivamente cambia metodologia di ricerca e osserva tutte le fotografie che gli capitano sotto gli occhi e le studia per trovarne l’essenza: analizza foto di grandi fotografi e scopre che esse sono o poco interessanti o molto interessanti ma non ne coglie ancora l’essenza o la verità.
La risposta che cercava arriva improvvisamente e inaspettatamente quando Barthes cerca fra le foto di famiglia una fotografia che gli ricordi la madre e gliela mantenga viva nella mente: trova una foto della madre bambina che, insieme al fratello, si trova nel giardino di famiglia nella stagione invernale; lei ha cinque anni, lui sette; questa foto lo colpisce profondamente: si accorge che quella è una foto diversa da tutte le altre, è la “sua foto”, è la foto-verità che ritrae la madre segnalandogli dei particolari che lo colpiscono e da cui non può più separarsi.
Intitola la foto Il giardino d’inverno.
Barthes scopre che la foto verità è una foto affettiva e che ci si deve spostare nel campo delle emozioni per scoprire quella verità e quell’essenza che andava cercando; da quel momento Barthes sa che si può attivamente scandagliare le immagini per trovare le informazioni razionali di tipo culturale o sociologico, tecnico o di costume, oppure si può attendere di essere colpiti da un particolare speciale che tinge la foto di un colore nuovo.
Nel 1979, a un anno dalla morte della madre, Barthes scrive le riflessioni che riguardano questa scoperta: la foto ricerca è una foto-Studium a gradazione emotiva media; la foto che colpisce contiene un particolare, il Punctum, il quale alza l’intensità emotiva al massimo e fa di quella foto “la mia foto”, una foto speciale che non si può più dimenticare.
Barthes nasce in bassa Normandia nel 1915 e muore a Parigi nel 1980; liceo a indirizzo filosofico che gli fornisce le basi del pensiero futuro, università La Sorbona di Parigi dove si laurea a pieni voti in lettere classiche, specializzazione successiva in grammatica e filologia, interessi di cinema e teatro, docente in prestigiose università, grande filologo, semiologo, critico letterario, collabora con riviste francesi, scrive saggi, è considerato uno dei più grandi dell’epoca. Orfano di padre a un anno, perde la madre, a cui è legatissimo, dopo una lunga malattia nel 1978 dopo averla assistita quotidianamente; non riesce a consolarsi della perdita, cerca lo stratagemma della fotografia che gli permetta di sentirla viva dentro di sé; infine vive l’esperienza dell’illuminazione di quel particolare che lo ferisce come una freccia che gli arriva diretta in una zona imprecisata di se stesso, in profondità; è un particolare di leggerezza che aveva vissuto con lei durante la vita e soprattutto verso la fine e che andava ricercando senza trovarlo. Quel particolare rappresenta l’essenza profonda della madre, e lo trova in un’immagine di lei bambina che non ha mai conosciuto.
Lo Studium può colpire l’osservatore ma non ferirlo; solo il Punctum rivela l’essenza di una foto, la verità, qualcosa che è già presente ma in ombra nella scena e che poi balza fuori come un lampo. Allora la fotografia diventa “sovversiva”: non perché spaventa o sciocca, sorprende o repelle, ma perché, grazie al Punctum che si rivela, diventa “pensiva”.
Barthes suggerisce di lasciare che il particolare salga da solo alla coscienza affettiva e dilaghi.
Lo Studium informa e si analizza con cura, il Punctum trasforma e folgora non cercato.
Quindi il Punctum porta a un’emozione travolgente: essa consiste non tanto nel traumatizzare quanto piuttosto nel rivelare ciò che era così ben nascosto, ciò di cui l’osservatore non era consapevole. È una verità difficile da trovare e può essere solo soggettiva.
È il Punctum e non lo Studium che catalizza le attenzioni di Barthes. Le foto-Studium hanno tutto per essere banali: possono interessare ma non possono essere amate, possono scioccare per i loro contenuti ma non portano turbamento; possono urlare ma non ferire; è solo il Punctum che rivoluziona la foto e obbliga a un cambiamento di lettura: quella che sto guardando diventa una nuova foto contrassegnata ai miei occhi da un valore superiore, in dialogo tra il generico e quel particolare che ha lasciato il segno.
Le Studium-foto suscitano soltanto la loro identità e non la loro verità; quelle che si possono amare profondamente invece manifestano qualcosa dunque di speciale, la “scienza impossibile dell’essere unico”.
Il Punctum arriva folgorante: è un’esperienza intuitiva di illuminazione indescrivibile e inspiegabile, anche incomprensibile dalla ragione; senza Punctum la foto resta inerte.
Quel nucleo irradiante e irriducibile vale solo per chi ne è stato “ferito”. Esso diventa l’”insostituibile” soggettivo.
Col Punctum la foto qualunque e banale si trasforma in follia, dice Barthes: diventa il ponte dell’essenza; esso spinge a una Metamorfosi: la maschera della rappresentazione generica scompare, resta un’anima, senza età ma non al di fuori del tempo.
Possiamo ora dare un senso al titolo che Barthes sceglie per la sua opera.
Spesso la fotografia viene associata alla camera oscura, a quel buio (rischiarato solo da luce rossa) in cui si immerge l’operatore mentre si destreggia con le carte fotosensibili e gli acidi (senza dimenticare che anche il rullino tiene immersa nel buio l’immagine “impressionata”). Invece, dice Barthes, bisognerebbe definirla come “camera lucida o camera chiara”: uno spazio in cui l’essenza è già presente seppure ancora in ombra, tutto è già palese ma da scoprire. Metaforicamente la camera oscura è la foto misteriosa non rivelata, la camera chiara è la foto in cui si è manifestato anche il senso profondo, l’anima speciale. La camera lucida possiede quella presenza-assenza che attrae irresistibilmente.
Barthes suggerisce al fotografo di sviluppare uno sguardo con la S maiuscola: se per mancanza di talento o per disavventura egli non sappia dare “all’anima trasparente la sua ombra chiara”, il soggetto muore per sempre.
In sintesi, si può dire che dobbiamo distinguere tra un campo di interesse culturale, lo Studium, e quella striatura imprevista, il Punctum, che porta a un “infra-sapere”.
In conclusione apprezziamo due regioni della Fotografia: da una parte le immagini, l’inessenziale, il chiasso da cui siamo abusivamente assordati; dall’altra “le mie foto”, ciò che brucia, ferisce. Questa distinzione avviene grazie a un’alchimia speciale, a una “preghiera meditativa”; il Punctum grida in silenzio e bisogna guardarlo con gli occhi chiusi alzando la testa dalla foto.
La fotografia dunque diventa “folle” per questo paradosso: è insieme chiara e oscura, presente e passato, ha la sua essenza e il suo “scandalo”.
Sta all’osservatore scegliere la via da percorrere: quella gregaria oppure quella che Barthes chiama in conclusione l’”estasi fotografica”.
Roland Barthes scrive La camera chiara. Nota sulla fotografia nel 1979, pochi mesi prima di morire; il libro infatti viene pubblicato postumo in Francia nel 1980 (in Italia da Einaudi nel 1980 e nel 2003 come riedizione).
È importante precisare che il libro non è scritto da un fotografo, né professionista né dilettante, per cui non rappresenta una ricerca tecnica o artistica; si tratta invece di una ricerca dell’essenza della fotografia e della metodologia per raggiungerla.
Un altro chiarimento determinante è che, nel saggio, Barthes si riferisce alla fotografia meccanica, ottica, chimica, essendo vissuto in un tempo pre-digitale; pur sapendo che la fotografia pre-digitale e quella digitale sono del tutto differenti, le riflessioni e la ricerca di Barthes rimangono comunque applicabili all’oggi
Il libro racchiude un pensiero complesso, espresso da un linguaggio non sempre scorrevole; si fa fatica a scalarlo fino in cima. Forse la possibile applicazione di questa riflessione sulla fotografia alla nostra metodologia clinica, oltre che la scoperta di punti di contatto tra pensiero analitico e attività fotografica, rappresenta la spinta alla lettura e alla elaborazione di questo prezioso saggio.
BIBLIOGRAFIA
Barthes R. (1960), Il messaggio fotografico, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1985
Barthes R. (1980), La camera chiara. Note sulla fotografia, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1980/2003