La guerra e Jung. Sognando la pace

di Marco Garzonio

“Per ogni cosa c’è il suo momento”. “E giungeremo dove siamo partiti”

Quando scoppiò… la grande guerra
L’umanità… era sulla via del sacrificio
Lo spirito degli abissi, si impadronì… del nostro destino.

Abbiamo attraversato
Senza accorgerci
L’oscurità dell’inconscio
è più forte di noi
I giorni abbaglianti… di luminosità
Nel mio giardino, il cielo era più vicino… a me e a Dio.

– Franco Battiato, Lo spirito degli abissi

«Assoluto soffio, dice Qohelet / assoluto soffio; / tutto è soffio». Così la nuova edizione italiana della Bibbia diretta da Enzo Bianchi rende i primi versi di Qohelet, uno dei più famosi libri sapienziali dell’Antico Testamento. La parola ebraica hevel viene resa nel significato originario: “vapore, soffio, fiato”, termini che rimandano al respiro. Non più la moraleggiante “vanità”, la vanitas vanitatum della tradizione latina. La transitorietà della vita e del reale – dalla violenza all’avidità, dal potere alla morte – è un succedersi combinato di sviluppi negativi e frammenti di gioia autentica. In un “soffio” si compenetrano concretezza dell’esistenza e necessità d’essere vigili nel considerare l’avvicendarsi di poli opposti eppure compresenti. Perché «per ogni cosa c’è il suo momento, / un tempo opportuno per ogni faccenda sotto il cielo». Nella dinamica della natura e della storia c’è «tempo per generare», come c’è «tempo per morire». Così pure esiste la possibilità che natura, storia, umanità possano precipitare nel caos o riscattarsi. Il lungo distico di Qohelet (3, 1-8) chiude infatti col versetto: «tempo di guerra, tempo di pace». Difficile un’introduzione più significativa a quel che viviamo: “tempo di guerra”, dopo l’aggressione di Putin a Kiev; “tempo di pace” nei desiderata di chi non ha perso la fede nell’umanità dell’uomo dopo un anno di morti, donne e bambini violati, case, centrali elettriche e ospedali bombardati, camere delle torture, fosse comuni, profughi a milioni sparsi per l’Europa.

Corsi e ricorsi della storia. Scrive Jung: «Anche la diffidenza del primitivo verso le tribù vicine, che noi credevamo di aver superato da tempo con le nostre organizzazioni internazionali, si presenta oggi in questa guerra in misura ingigantita. Qui non si tratta solo di mettere a ferro e fuoco un villaggio vicino, o di tagliare un paio di teste: interi paesi vengono devastati, milioni di uomini uccisi». Queste parole furono scritte nel 1918, sul finire della Prima Guerra Mondiale. Il saggio “Sull’inconscio” apre il X volume delle Opere (“Civiltà in transizione”) e si articola in due tomi: “Il periodo tra le due guerre”, con testi datati a partire dal 1918 sino allo scoppio del 2° Conflitto, e “Dopo la catastrofe”, con lavori compresi tra la fine dell’ultima guerra sino alla morte dello Psichiatra di Zurigo, avvenuta nel 1961.

“Primitivo” e “tribù” sono due termini indicativi dello stato psichico di individui e comunità. Jung incastona il riferimento ad essi in una disamina esemplare della concezione energetica dell’inconscio e in una prospettazione della nozione di “inconscio collettivo” elaborata in modo originale accanto a quella d’inconscio personale. Si tratta d’un passaggio personale importante. Jung ha chiuso la sua “guerra privata” con Freud – chiamiamola così – da cinque anni (dimissioni polemiche dallo Jahrbuch il 27 ottobre 1913); ha avviato il confronto con sé stesso e l’inconscio, cominciando a comporre il Libro Rosso, dove riporta scrupolosamente sogni drammatici, immagini, visioni sconvolgenti premonitrici dell’imminente Guerra Mondiale. Strade opposte sono ormai segnate in quel 1918 tra i protagonisti della Psicologia del Profondo: a Budapest, a settembre, si tiene il 5° Congresso psicoanalitico internazionale organizzato da Ferenczi, mentre Jung a Zurigo mette a punto i capisaldi che differenziano la sua visione della psiche «libera da pregiudizi», in contrasto con la Psicoanalisi di Freud e la Psicologia individuale di Adler. La Psicologia Analitica, nome dato da Jung al suo lavoro, si pone lo scopo «di fondare scientificamente i fenomeni dell’inconscio» (p. 15). Si può dire, riassumendo, che la pratica analitica per Jung è corrispondere al desiderio dell’uomo di «cercare la “via di mezzo”, la strada che consenta di unificare ciò che è diviso». Secondo lo psichiatra di Zurigo la nostra coscienza si trova tra «due tipi affatto diversi di fenomeni o di oggetti psicologici. Una metà delle percezioni le arriva dai sensi, l’altra dall’intuizione dei processi interni, suscitati dall’inconscio». Il simbolo, per sua natura, dovrebbe contenere «ambedue gli aspetti, quello razionale e quello irrazionale». Ma mentalità “primitiva”, concezionale “tribale”, attitudine dell’«inconscio di un individuo a proiettarsi sugli altri» (p. 24) e dell’inconscio collettivo a produrre «fantasie mitologiche», che sollevano l’uomo «al di sopra di sé stesso», producono la morte della natura personale dell’uomo, la predominanza di visioni identitarie, stati psichici di diffidenza, di difesa-aggressiva.

Si coglie subito la novità della concezione junghiana della vita psichica: essa è intimamente legata alle concause che contribuiscono a formare l’uomo storico concreto. In tale visione Jung studia le forme delle interrelazioni tra realtà psichica e altri fattori della storia: religiosi, filosofici, sociologici. Centrale per Jung è conoscere «il rapporto fra la coscienza e l’inconscio nell’uomo moderno», proposito che persegue con una sorta di laicizzazione della cultura oltreché del lavoro con la psiche. Indicativa la sua ricostruzione del magma da cui avrebbe tratto origini il nazismo. Il cristianesimo (p. 12) – sostiene Jung – «scisse il barbaro germanico in una metà inferiore e in una metà superiore». Rimuovendo «la parte oscura riuscì ad addomesticarne la parte luminosa e a renderla idonea alla civiltà. Ma la metà inferiore aspetta la sua liberazione e un secondo addomesticamento». Conclusione: «Quanto più si perde l’autorità, prima incondizionata, della visione cristiana del mondo, tanto più la “bestia bionda” darà segni di irrequietezza nel suo carcere sotterraneo, e minaccerà di erompere con effetti devastanti». Ma lasciamo questo Jung del 1918 (vi faremo di nuovo un cenno più avanti parlando di Sigfrido). Torniamo all’attualità che ci affligge, portando con noi due aspetti. Primo: ricerca e prassi junghiane sono tese a definire un metodo di approfondimento socio-storico globale, a riconoscere il peso della realtà psichica, conscia e inconscia, nella storia. Secondo: l’attitudine a cogliere, elaborare, affinare l’approccio simbolico con una specifica avvertenza parlando d’inconscio collettivo. Scrive Jung (p. 10): «Non si deve pensare che le fantasie mitologiche siano rappresentazioni ereditarie. Non si tratta di questo, ma di possibilità rappresentative innate, condizioni a priori dell’immaginazione fantastica … Tali condizioni innate non forniscono contenuti, ma modellano i contenuti ereditari. Queste condizioni universali, date con la struttura ereditaria del cervello, spiegano la somiglianza dei simboli e i motivi mitici presenti in ogni parte del mondo».

Dal mito all’attualità: e ritorno. È stato detto che coi carrarmati Putin il 24 febbraio 2022 ha aggredito l’Ucraina, riportato indietro l’Europa di 80 anni, cercato di riscrivere la storia. L’affermazione è fondata dal punto di vista degli assetti politico-istituzionali, delle interdipendenze d’un’economia globalizzata, degli equilibri geopolitici. Il conflitto ha determinato una serie di eventi a catena caratteristici d’una finanza di guerra: crisi alimentare; prezzi di energia e minerali alle stelle; inflazione; speculazioni; sanzioni. Fenomeni di tale portata da incidere sui processi psichici individuali e collettivi e da coinvolgere universi simbolici. Soffermiamoci su un particolare. Lo stemma dell’aquila bicipite, che dal 1993 ha sostituito la falce e martello della bandiera sovietica e che è sempre alle spalle di Putin nelle pose ufficiali ripropone un’antica immagine. L’aquila a due teste rappresenta l’Impero che guarda a Oriente e a Occidente per tenere unite due realtà. Nel momento in cui però il vessillo è alla testa d’un’armata che viola i confini d’un Paese vicino per annetterlo e soggiogare la popolazione produce mutamenti etici, valoriali, emotivi. Seguendo una rapida ricostruzione storica possiamo dire che quell’aquila svela i possibili propositi inconsci di chi attuò la riforma 30 anni fa (Boris El’cin) e dei suoi sostenitori Senza entrare nel merito degli scontri di allora, quell’icona segna la damnatio memoriae per il lavoro politico e culturale di Michail Gorbačëv. Questi era un riformista, puntava ad una riforma interna (perestrojka e glasnost), al taglio di mire “imperiali” (ritiro delle truppe da Afghanistan e Mongolia), a buoni rapporti internazionali (con Usa, Cee, Cina), a riconciliazione con la religione (millennio della Conversione della Rus’ con partecipazione vaticana).

Dal vertice d’osservazione della psiche collettiva possiamo temere che quell’aquila il 24 febbraio 2022 avvia la diffusione dei germi di un contagio psichico collettivo a Est e a Ovest: le menti son sollecitate con violenza su un piano inclinato verso un pensiero arcaico, un processo “a ritroso”, in cui prevalgono diffidenza, sospetto, paura del vicino, disposizioni simmetriche, istinto a digrignare i denti, mostrare i muscoli, ostentare strumenti d’offesa,  segni del potere, vessilli di truppe. Regressione a stadi primitivi, riemersione di assetti tribali, proiezioni, rivendicazioni identitarie riducono gli spazi a riflessione critica, libera manifestazione di opinioni, confronto civile, diritti e doveri di cui dovrebbero vivere gli stati in adempimento delle “dichiarazioni universali” e dei trattati internazionali. Vien contingentato il tempo di ponderazione, dialogo, intermediazione, lavoro diplomatico. Negli interstizi si attivano circuiti emotivi, affettivi, reattivi disconnessi dalla ragionevolezza e dalla prudenza. La tensione cresce, manda in corto circuito la funzione simbolizzatrice. Saltano termini di riferimento essenziali. Scriveva Simone Weil, che fece la Resistenza col lavoro del pensiero non avendo la salute per andare al fronte: «Le parole che hanno un senso e un contenuto non sono assassine»; ma lo diventano «se svuotate della loro essenza simbolica e ributtate dall’altra parte della trincea come pietre dalla catapulta della propaganda». Esempio: l’Ucraina resiste, la Russia giustifica la guerra come operazione di “denazificazione”, storia e proiezioni vanno in corto circuito.

Ammoniva Jung in “Sull’inconscio” (p. 26), dopo aver evocato la distruttività che si profila se prevalgono “primitivo” e “tribù”: «Nella nazione nemica non c’è più niente che si salvi, e i propri difetti appaiono, nel nemico, enormemente ingigantiti». L’interrogativo inquietante, allora come ora suona: “Dove sono finite oggi le “menti superiori”? Ammesso che esistano, nessuno dà loro retta: una furia omicida doma incontrastata, un destino fatale e ineluttabile, contro il quale il singolo non può opporsi».

Tra storia degli uomini e inconscio la relazione è impari. Il secondo ha una “potenza” spesso incontrastabile, tale da forzare i processi della prima, sino a stravolgerli. Torniamo a un anno fa. Si stava allentando la morsa del Covid. Dopo quasi due anni di paura e chiusure permaneva un senso di rassegnazione e spirito di adattamento verso un elemento aggressivo però sconosciuto, che naturalmente era percepito e vissuto come sfuggente alle possibilità di controllo, nonostante le difese del lockdown prima e dei vaccini poi. Gli aspetti inconsci della pandemia sconfinavano nell’indistinto, nel caos collettivo e mettevano a nudo l’impotenza umana verso ciò che vien da fuori.

Il 24 febbraio la situazione s’è capovolta. L’uomo ha mostrato di poter essere autore d’un germe patogeno che non con prodotti da laboratorio e microscopio ma con missili e carrarmati minaccia singoli e convivenza della umana. I connotati eran riconoscibili: le fattezze d’una persona, Wladimir Putin; il supporto d’una cultura di riferimento (il filosofo Aleksandr Dugin, per i media; un pensiero slavofilo, euroasiatico, sovranista, teocratico, con radici nell’immaginario d’una Grande Russia assediata e di un’Anima russa fondata su emozioni forti e sentimenti); l’azione d’un governo e d’un Parlamento; le truppe e gli arsenali d’un esercito che vantava una tradizione epica (l’Armata Rossa che sconfisse Hitler!); enormi risorse economiche cash grazie a produzione e vendita di energia. Insomma, una “macchina da guerra” alimentata copiosamente, e ben prima del 24 febbraio, da una serie di valori emotivi/affettivi in massima parte attinti all’universo dell’inconscio culturale del Paese: le grandi tradizioni politiche, religiose, artistiche; le appartenenze etniche e territoriali; i miti antichi (non dimentichiamo la Russia patria di Vladimir Propp) e quelli più recenti (a cominciare dal recente Impero Sovietico, smantellato precipitosamente e, si capirà in maniera sempre più chiara, senza la necessaria elaborazione del lutto).

Destinatari dell’infezione, non immuni al germe patogeno e peraltro predisposti produrre a propria volta ceppi autoctoni, c’erano più corpi, le cui menti, individuali e collettive, erano depositarie d’una memoria psichica anche recente, non sempre (colpevolmente) esplorata ed elaborata, esposta ad ogni possibile riattivazione. C’era il corpo aggredito, il popolo ucraino, con la sua coscienza recente in termini di diritti, democrazia, libertà, conquista della autonomia, avvertito rispetto alla minacciosità/aggressività del vicino (l’Ucraina era una delle 17 Repubbliche Sovietiche; ad essa Stalin impose d’essere il granaio delle altre 16; per piegare la riottosità inventò l’“holodomor” la carestia del 1932-1933, causa di milioni di morti), con spinte di rivincita sullo scacchiere internazionale e un inconscio culturale ricco di ideali politici (sperimentati in modo battagliero), folklore, arte, tradizioni, e di meticciato (Kiev fu capitale della prima Rus’ mille anni fa, ai tempo della conversione dei popoli slavi al cristianesimo). C’era il corpo degli altri vicini prossimi, timorosi d’essere le vittime designate a seguire: pure loro avevano fatto parte dell’Impero Sovietico (Polonia, Romania, Moldavia), ma appena avevano potuto erano entrati nell’orbita del nemico di prima: l’Occidente; ad esso si riferivano per economia, modelli culturali, alleanze strategiche militari. C’erano poi i corpi dei vicini neutrali ma a un tiro di cannone: per i quali poteva non esser di salvaguardia l’esser fuori dai blocchi (Finlandia e Svezia). A coprire le spalle dell’Ucraina c’era poi il corpaccione dell’Occidente, grosso, ingombrante, agguerrito, minaccioso pure lui nonostante l’Alleanza che lega a doppio filo i destini dei membri si qualifichi “organismo di difesa”: la Nato. Anche la Nato e i Paesi che la compongono, ormai 30, dai fondatori, gli Stati Uniti in testa (il Patto Atlantico fu firmato a Washington nel 1949), agli ultimi arruolati (7: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia: tutti Paesi ex sovietici) avevano tanti Io infettabili, pronti a generare anticorpi in posizione simmetrica rispetto all’invasore. Animati da culture diverse, organizzazioni istituzionali e politiche poco omogenee son compattati dietro la bandiera dell’Alleanza, affiancati da un Io un po’ più grande degli altri, anche se giovane e fragile: l’Unione Europea. Nato e organismi dell’Europa, Commissione e Parlamento, potevano mettere in campo armi (d’intesa con Washington) e impianto storico, culturale, artistico, religioso dell’Occidente che rivendicava rispetto dell’uomo, esercizio dei diritti, democrazia, libertà, sbandierando, a riferimento, la Dichiarazione Universale di Diritti dell’Uomo del 1947 e poi dall’Onu.

Anche il sistema occidentale, insomma, disponeva di arsenali di germi patogeni atti ad alimentare simmetricamente l’infezione psichica e favorire sviluppo di varianti: una riserva di spunti d’inconscio collettivo. Facciamo degli esempi. Crollato il Muro di Berlino, l’Occidente ha agito una sindrome di cui soffre da tempo, diversa per tonalità affettiva, eventi, attori: la sindrome dell’”esportazione della democrazia”. Essa si presenta promotrice di aspetti formali (meccanismo parlamentare), accompagnati da principi economici. Primo: il mercato, coi suoi meccanismi economico-finanziari, di cui viene decantata la supremazia rispetto ad altri sistemi e sottaciuto l’impatto su valori umani: persona, giustizia sociale, libertà individuale.  30 anni fa Governi, Università, Gruppi Economici hanno invaso Russia e Paesi satelliti col Mercato, presentandolo come una panacea, un “dio” che avrebbe sanato le ferite di 70 anni di dittatura comunista, consentito l’impianto di un assetto democratico sul modello d’un Occidente felix, sprigionato le energie positive che possono venire dalla libertà finalmente conquistata.

La psiche è fatta di nessi, risonanze, complicità. Dopo il 24 febbraio nell’immaginario occidentale sono entrati gli Oligarchi russi, individui ricchissimi, appropriatisi dei beni dell’Impero Sovietico in liquidazione, convertiti in dollari e investiti nel mondo, capaci di condizionare le scelte di politica del loro Paese, a cominciare dal capo e sodale, Putin, giunto ai vertici del potere espressione anche di quegli interessi. Se guardiamo meglio quelle creature vediamo fattezze frutto di incroci; come in antichi Bestiari risultato di incroci di parti diverse. Innanzi tutto l’“Orso Sovietico”: icona del lessico da Guerra Fredda in Occidente; secondo ambienti diplomatici, corrispondenti di giornali, letteratura di viaggio era icona del potere in Urss. L’orso: animale possente, cacciatore, chiuso, dalle imprevedibili reazioni, con porzioni di debolezza (ghiotto di miele), attitudine ad accumulare scorte. Ma l’oligarca ha anche parti mutuate dall’homo occidentalis: predilezione per i capitali (molto nero), Mercati (materie prime, fonti energetiche), mondanità (Costa Azzurra, Svizzera, Sardegna), lusso (yacht, aerei, auto fuori serie, ville da paradiso). Per spirito d’avventura, aggressività, spregiudicatezza, strafottenza somiglia ad alcune figure da Far West (magari all’italiana). Tanti incroci suggeriscono il nome Gringorsosauro per l’oligarca tipo: caratterizzerà l’economia russa a cavallo tra fine e inizi del nuovo Millennio, popolando l’immaginario occidentale. A rimarcare l’importanza di quel personaggio-tipo va ricordato che le prime sanzioni dell’Occidente contro la Russia han colpito proprio gli oligarchi. Uno di essi, Roman Abramovič, popolare per esser proprietario del Chelsea dal 2003, ha fatto la sua comparsa al tavolo dei primi negoziati tra Russia e Ucraina.

I “nuovi mostri della finanza”, aiutati a nascere e a crescere sui modelli americano ed europeo, hanno rappresentato la punta dell’iceberg d’una collusione dell’Occidente mercantile con le ombre dell’Oriente. Da subito l’Occidente concepì la Federazione russa come terra di conquista per frigoriferi, lavatrici, televisori, automobili (segmenti medi e marchi come Ferrari e Lamborghini), impiantare catene della ristorazione (McDonald’s), degli arredi per la casa (Ikea), della moda (alta e prêt-à-porter), dell’abbigliamento (Zara e Adidas), del lusso (Hermes, Gucci, Chanel), dell’elettronica. E si potrebbe continuare. L’orizzonte mercantile è esteso.

Il fascino dell’Ombra capitalista ha posseduto la mente dell’Occidente impedendole di cogliere evidenti segnali relativi a energie che si eran liberate col crollo dell’URSS nel campo culturale, politico, spirituale. Faccio un esempio attinente ai valori più alti: quelli spirituali. Da parte cattolica (Papa allora Papa era Karol Wojtyla, polacco) e protestante all’indomani del crollo del Muro di Berlino son state promosse iniziative di presenza in Russia come se la Chiesa Ortodossa o fosse poco influente sulla società dopo 70 anni di ateismo di Stato, o addirittura si fosse compromessa col regime sovietico al punto da doversi far perdonare per i rapporti col Pcus. A proposito di inconscio collettivo, anche nell’universo religioso hanno prevalso proiezioni, miti, narrazioni. Comprensibile l’allora reazione del Sinodo Ortodosso con l’accusa a Roma di “proselitismo”, cioè di un atteggiamento di conquista di nuove schiere di infedeli, come si farebbe in aree di cultura pagana.

Il teatro della mente il 24 febbraio è stato dunque messo a dura prova, sia a Oriente, da cui è partita l’aggressione, sia in Occidente dove è stata subita e da cui è scattata però la reazione. S’è tenuto testa all’invasore (la Resistenza ucraina: una sorpresa di valore umano e ideale per i russi, ma pure per un’Europa stanca, ripiegata, abituata a viver di rendita di valori dati per scontati) e contrattaccato con aiuti militari, economici, umanitari, ma con poco sostegno culturale. E molta retorica! A 80 anni dalla fine della seconda guerra mondiale l’Europa ha creato organismi e istituzioni europee, ma è condizionata dagli interessi dei singoli Stati: non ha un’immagine interna di sé, “terza” rispetto alle collaborazioni o alle contese tra Stati membri. Se l’avesse si sarebbe attrezzata con politica estera e di difesa. Nell’inconscio culturale dell’homo europeus c’è il Manifesto di Ventotene (1941-1944), secondo cui avrebbe dovuto essere «liberata dagli incubi del militarismo o del burocratismo nazionale» così da «creare intorno al nuovo ordine un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento, e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale». Ci sono le Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea. Ma ci sono anche disvalori. Un’ipotesi di lavoro per degli Analisti sarebbe di vedere se la guerra può agitare le acque impigrite dell’Anima europea e portare alla coscienza contenuti rimossi. O se resta dominante la crosta di piccole patrie, comodi rifugi, interessi, appartenenze che Piero Pelù ha sarcasticamente cantato con queste parole:

Il cibo francese
La macchina tedesca
Il vestito italiano
La scarpa un po’ all’inglese
L’amante dell’est la barca giù all’ovest
Vacanze alle Maldive
Ed un debole per essere primi.
Homo Europeus più forte di Zeus.

Con l’esposizione circostanziata di eventi e linee di tendenza di opposte mentalità in conflitto ho voluto documentare la problematicità della situazione e dare eco, dal punto di vista della psiche collettiva, alle estreme difficoltà che si profilano nel momento in cui – per riandare all’immagine del Qoehelet – si vorrebbe che al “tempo di guerra” seguisse il “tempo di pace”.  

Per cercare di rispondere alla domanda se è possibile immaginare vie d’uscita all’impotenza e al vissuto di morte che la guerra ispira, rivado a Jung. Trent’anni dopo il saggio “Sull’inconscio”, a fine 1947, l’UNESCO volle promuovere «ricerche su moderni metodi elaborati dalle scienze dell’educazione, dalle scienze politiche, dalla filosofia e psicologia, volti a operare un cambiamento dell’atteggiamento mentale, e sulle circostanze politiche e sociali necessarie per favorire l’applicazione di determinate tecniche». Tra i destinatari dell’invito ci fu l’Istituto C. G. Jung di Psicologia Analitica. Jung stese un promemoria. Il documento è riportato nel 2° tomo, “Dopo la catastrofe”, del volume X delle Opere, col titolo: “Tecniche di trasformazione dell’atteggiamento mentale in vista della pace nel mondo”.

Jung pone la responsabilità soggettiva al cuore del lavoro analitico. Alla base stanno le considerazioni che aveva fatto a caldo, nel 1945, riportate nel 2° tomo del volume X delle Opere: “Commenti sulla storia contemporanea”. Annota Jung: «Le decisioni ultime risiedono sempre nella psiche umana» (p. 49); «Affinché si muti l’intera realtà deve prima mutare l’individuo singolo» (p. 53). Nello scritto per l’UNESCO evidenzio tre punti (pp. 97-99). 1. La distinzione tra atteggiamento e comportamento. Nelle «gran massa della gente» il secondo si può cambiare, il primo no. Quanto al cambiar comportamento a livello collettivo Jung evidenzia la responsabilità di dare l’esempio da chi si trova in posizioni apicali. Il cambiar comportamento da parte dai cittadini «dipende dall’autorità dei capi che abbiano realmente modificato il proprio atteggiamento». 2. La responsabilità viene declinata in modo ancora più diretto nella equiparazione tra “star male” dell’individuo e disagio sociale. Scrive: «Occorre compiere un bel passo avanti per giungere … a concludere che, se nel mondo c’è qualcosa di sbagliato, lo stesso vale anche per me». Un cardine della psicologia junghiana. Nel volume XVI delle Opere, intitolato “Pratica della psicoterapia” aveva scritto nel 1941, in piena guerra: «Il naturale processo d’individuazione conduce alla consapevolezza della comunità umana, proprio perché ci rende coscienti di quell’inconscio che collega tra loro tutti gli uomini ed è a tutti comune. L’individuazione è un’unificazione con sé stessi e, nel contempo, con l’umanità di cui l’uomo è parte» (p. 118). 3. Un’icastica proposizione di stile di vita: «È una questione di personalità, senza la quale qualsiasi metodo o organizzazione perde il suo significato. Nessuno può cambiare un’altra persona senza aver prima trasformato il proprio cuore». Nel Libro Rosso aveva scritto: «Anche le cose cambiano, ma non te ne accorgi se non cambi anche tu. Se però tu cambi, si trasforma anche il volto del mondo».

Che cosa significasse cambiare Jung lo aveva sperimentato su di sé allo spirare dei venti di guerra. Lo scrive nel Libro Rosso. Il 18 dicembre 1913 ebbe un «sogno terrificante». In montagna insieme a un giovane uccise «il nostro mortale nemico»: Sigfrido. Provò «una sofferenza mortale … con certezza che avrei dovuto uccidermi se non fossi riuscito a risolvere l’assassinio dell’eroe». Col sogno successivo si chiarì l’enigma: aveva avuto un confronto con l’Ombra. Sigfrido «era il mio eroico ideale di efficienza», cioè l’opposto di quanto aveva incominciato a cercare: doveva distruggerlo se voleva proseguire nel processo di ricerca di sé, dell’Anima, in ascolto dello Spirito del profondo, resistendo alle seduzioni dello Spirito del tempo: potere, affermazione di sé, carriera, conformismo. Da quel passaggio personale emerge l’icona dell’eroe-antieroe: uno Jung traghettatore tra inconscio e coscienza, tra ubris, volontà di conquista, di sottomissione dell’altro, da una parte e, dall’altra, civiltà, cultura, regole, diritti/doveri. L’Ombra/Sigfrido, se non rimossa, ma affrontata decisamente come ha fatto Jung, porta ad una verità psichica: il conflitto tra individuo e valori collettivi induce regressione, il contatto con forze primitive; di queste si può restar prigionieri e soccombere, ma è ragionevole immaginare che si possa arrivare alla trasformazione dell’energia psichica primordiale potenzialmente distruttrice in fattore di cambiamento del soggetto e poi del sociale.

Tre anni dopo la sconvolgente uccisione di Sigfrido, Jung parlò al Club Psicologico di Zurigo: «Il primo passo in direzione dell’individuazione – disse – è tragica colpa. L’accumularsi della colpa esige espiazione». Espiare è “rendere di nuovo puro”, integro ciò s’era corrotto; è discernere, integrare ciò che è adatto a un Io proteso alla ricerca di sé e alla realizzazione dei valori della comune umanità, ad una «comunità consapevole»; nel contempo è riconoscere le potenzialità disgregatrici di talune mete collettive (ad esempio le questioni identitarie) che si presentano come valori e che invece annientano l’individuo, lo riducono a oggetto, pedina in un meccanismo più grande di lui, ingranaggio di dogmi socio-comportamentali. Nel manoscritto del Libro Rosso (riportato alla nota 124), là dove riconosce che, uccidendo in sé l’Io collettivo di Sigfrido ha «oltrepassato l’abisso. Attraverso la colpa sono rinato», Jung trae indicazioni una da tale rinascita: «Il mondo di mezzo è un mondo delle cose più semplici. Non è un mondo dell’intenzione e del dovere, bensì un “mondo del forse” dotato di possibilità infinite. Qui ci sono solo viuzze secondarie, nessuna ampia e diretta strada militare, sopra non v’è un cielo, né sotto un inferno».

“Mondo di mezzo”, mondo dell’eroe-antieroe, “mondo del forse”, mondo “dotato di possibilità infinite” (tante quante la creatività suggerisce), mondo delle “viuzze secondarie” (l’opposto della facile “ampia e diretta strada militare”) sono espressioni che fanno intravvedere indicazioni per gestire i conflitti in modo costruttivo, per puntare alla pace: da sognare e da praticare. Psicologicamente la pace è un processo. È partire dalle tensioni tra opposti, reggerle, governarle in modo da ridurre a poco a poco le potenzialità disgregative e distruttrici. Sulla scia di Jung c’è da immaginare una cultura della pace da coltivare. La pace (da paco, pàcere) è “stringere”, “chiudere”: è il sigillo, l’impronta d’un processo che coinvolge tutto l’umano che è in noi; ciascuna delle funzioni psichiche entra in gioco nel processo: si pensa la pace, si ama la pace, si intuisce la dinamica della pace, si sente che cosa è la pace. Se una sola di tali funzioni prevale o manca la pace è in pericolo.

La “rivoluzione culturale” oltreché psicologica di Jung è il richiamo a “vigilare”. Il primo stadio del processo di pace è avvertire segnali di oscurità della ragione, intorpidimenti dell’anima, egoismi, accidia, invidie, disamore, disaffezioni, perversioni, sopraffazioni, doppiezze. Nulla di ciò che è umano è estraneo all’analista; nulla di quel che connota lo Spirito del tempo: nel bene e nel male, nel «tempo di guerra», nel «tempo di pace». Chi pratica la psicoterapia è chiamato in causa in prima persona da guerre, ingiustizie, fame, disoccupazione, infanzia e donne violate, mafie, discriminazioni razziali, intolleranze religiose, poteri occulti, legami tra affari e politica, speculazioni edilizie, cementificazioni, disastri ecologici. Non gli è consentito di voltarsi dall’altra parte confidando da anima bella che fuori dallo studio professionale tutto si aggiusterà mentre lui, l’analista, svolge il suo nobile lavoro. Finirebbe per farsi equiparare alla mentalità capitalista secondo cui il dio Mercato rimedierebbe a ogni squilibrio.

L’intrapsichico è anche riflesso della psiche del mondo. Nell’approccio alle oscurità profonde la partecipazione alle sofferenze dei singoli e del sociale ha un nome: l’attesa del giorno che verrà. La sentinella evocata da Isaia, il profeta posto in esergo del Libro Rosso, sta di vedetta; confida che poi «viene mattina». La veglia è tappa del processo. Nel buio la sentinella attende trepida e pregusta l’Aurora dalle dita di rosa, il sole, il giorno. Con l’alba può cominciare il «tempo di pace», l’itinerario che pone fine alle tenebre. Queste torneranno: sin dalla Creazione «e fu giorno, e fu mattina». Poi sera e di nuovo notte. Ad ogni imbrunire l’Io vigile andrà di vedetta nella torre della coscienza. La veglia dell’individuo fa prender coscienza che le diplomazie posson stipulare patti, ma se ferite e lutti non vengono elaborati, la pace non arriva ai cuori e le guerre sono in agguato. Ciò vale per i conflitti armati, ma anche per le repressioni, come tragicamente avviene coi patiboli nelle piazze di Teheran o a Kabul nelle persecuzioni delle donne. Scriveva Jung in “La psicoterapia oggi” (1941): «Assicurata l’esistenza del singolo, c’è anche la garanzia che l’organizzata agglomerazione dei singoli nello Stato, anche del più autoritario, non formerà più una massa anonima, bensì una comunità consapevole. Ma indispensabile premessa di tutto questo è la cosciente libertà di scelta e l’autodeterminazione di ognuno».  

Ha scritto T. S. Eliot in “Little Giddings”, all’interno di quel capolavoro che è il poema Quattro quartetti, che ho ripreso nel sottotitolo:

Noi non cesseremo mai di esplorare
e la fine di tutto il nostro esplorare
sarà giungere dove siamo partiti
e conoscere il posto per la prima volta.

«Esplorare» e «conoscere per la prima volta»: sono i nostri percorsi di analisti; il tempo circolare, il procedere a spirale della coscienza descritto da Ernst Bernhard, iniziatore della Psicologia Analitica in Italia; grazie a lui nacquero AIPA e CIPA. Ma insieme ad Eliot che compose i suoi versi sotto le bombe naziste a Londra viene voglia di tornare al punto da cui siamo partiti: fare come un altro poeta, David M. Turoldo; cioè, immaginare Mie notti con Qohelet (meglio sarebbe dire Le nostre notti) per affrancarci dallo smarrimento in cui volenti o nolenti siamo coinvolti, per carcar di orientarci, comprendere il senso degli eventi tragici che hanno portato all’anno appena cominciato, immaginare con quale contributo anche nostro è pensabile la fine della guerra in Ucraina. Nella consapevolezza che un esito favorevole non potrà prescindere dall’avvio di una mentalità rigenerata nel concepire modelli di sviluppo rinnovati, in discontinuità con i disastri che abbiamo tutti contribuito a determinare.

Turoldo, dialogando con l’inquietudine sua e del vecchio saggio Ebreo, si misura con l’assurdità di certi momenti della vita e dice: «Pure a te è negato conoscere / il senso vero del Nulla che insegui: / un Nulla che non sai se nulla sia / o sogno, o visione, o vento, o ancora / soffio caldo di vita. / Non c’è morte né vita per sé disgiunte». Poi risponde al Nulla con l’amore: «Dall’amaro stillicidio mentale ci salva / la Sublime Allegoria», “Sublime Allegoria” altro non è che l’inno d’amore sensuale e totalizzante dei due amanti del “Cantico dei Cantici”. Per concludere col “Libro di Giobbe”, l’atto di fede supremo verso un Dio che salva dal male: «Allora rinverdirà ogni carne umiliata / e gli andremo incontro con rami nuovi». Rami d’ulivo, c’è da ritenere, portati da una colomba secondo tradizione; annuncio di «tempo di pace», dopo «tempo di guerra».

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L’AISPT, espressione italiana della International Society for Sandplay Therapy ISST, si occupa di formazione, ricerca, condivisione di esperienze e conoscenze sulla psicologia con il metodo del Gioco della Sabbia, all’interno di una rete internazionale che facilita lo studio, la discussione specialistica e lo scambio tra i terapeuti. La Sandplay Therapy fornisce un linguaggio simbolico anche a chi non ha parole per esprimere il proprio malessere, consentendo di rappresentare il mondo interno così come si è costellato.

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