Voci dal mondo – A 17 chilometri da Gaza

di Paola Manzoni

All’inizio di quest’autunno, discutendo con i colleghi gli inviti che avremmo potuto fare per portare di nuovo una testimonianza clinica dal mondo sul nostro giornale, avevamo ipotizzato come auspicabile un intervento di un membro dell’Associazione Israeliana, in parte per via del Congresso ISST che recentemente vi si era svolto, ma soprattutto come luogo d’elezione di polarità contrapposte. Mi ero di conseguenza fatta dare il contatto di Bert Meltzer, in quando delegato al Board internazionale.

Poi ci fu il 7ottobre.

Convenni con una collega che non era il momento di chiedere alcunché. Poi, dentro di me, si affacciò un pensiero ed una tentazione: perché no?

Scrissi una lettera al dr. Meltzer in cui gli spiegai chi eravamo e gli offrii solo un pensiero di solidarietà; uscii dallo studio, giusto il tempo per prendere un caffè. Al ritorno, aprendo la posta, rimasi sorpresa nel trovare l’immediata risposta con la relativa disponibilità a testimoniare. Dopo pochi giorni mi arrivò l’articolo, che trovate di seguito pubblicato, che mi coinvolse emozionalmente per diversi giorni perché nel racconto di Bert percepivo una forte drammaticità (che una mia parente ha definito recentemente “agghiacciante”).

Vi invito alla lettura, contando come egli dice a proposito dei partecipanti al programma di Sandplay messo a punto in tali circostanze, sul vostro “willing ear” – cioè su un ascolto motivato, a recepire il dolore racchiuso in tanta vicenda traumatica.

La nostra prospettiva nel pubblicare tale esperienza non è certamente quella, in primis, politica. Il dr. Meltzer però ci fornisce un esempio coraggioso di come si possa convivere con una vicenda di estrema complessità internazionale ed umana, facendo leva sulle stesse nostre competenze e risorse terapeutiche per non soccombere al Male, con un anelito civile che merita tutta la nostra attenzione.

A 17 chilometri da Gaza

(traduzione italiana di Paola Manzoni)

Sabato 7 ottobre mi sono svegliato al suono familiare dei razzi lanciati da Gaza verso Israele e delle esplosioni di quelli dell’“Iron Dome” che l’intercettava.

Vivo in un’azienda agricola a 17 chilometri da Gaza; è qui che ho il mio studio di Sandplay. Abbiamo una difesa forte e siamo fisicamente protetti dalla improbabile possibilità che l’Iron Dome manchi il missile diretto su di noi. Il problema è quello delle emozioni umane. Il trauma della violenza e della crudeltà di tutto ciò, la tragedia di tante persone uccise, ferite, rapite.

Mio figlio Bar portò i suoi due figli sulla spiaggia, quella mattina, per pescare. Alle 6:15 i razzi iniziarono a essere lanciati proprio sopra la spiaggia. Il bambino più piccolo, Daniel, rimase terrorizzato: Bar mi chiamò per calmarlo, mentre stava sistemando le cose, prendendo la macchina per cercare di tornare a casa il più in fretta possibile. Il bambino di 10 anni piangeva e tremava dalla paura di morire.

Mio figlio maggiore, Yahale, mi chiamò poco dopo. Con la moglie e tre ragazzi vivono ad Ashkelon, a 5 minuti da me. Una casa vicino alla loro era stata colpita da un razzo; le persone non erano state ferite perché erano nel rifugio antibombe, ma il resto dell’appartamento era danneggiato e le schegge esplosero nel parcheggio bruciando alcune macchine; questo produsse una reazione a catena.

Gli eventi mi toccarono molto da vicino: ad esempio nel paese Nativ Ha-Asara, dove vive la sorella della moglie di Yahale. Quando Hamas fece l’assalto, sorvolando le barriere con i parapendii, questo fu uno dei 25 insediamenti che occuparono. Andarono di casa in casa ad uccidere quante più persone potevano, catturandone altre… molti erano senza aiuto e cercarono di nascondersi. La cognata di Yahale e sua figlia si nascosero in un angolo buio della casa per 10 ore (senza cibo, acqua o un gabinetto) piene di paura di fare il minimo rumore. Per fortuna l’angolo in cui si nascosero era mascherato dagli alberi e non visibile dall’esterno. Dieci ore dopo vennero salvate e scapparono in macchina attraverso campi e vie secondarie, fino ad un insediamento più a nord. La ragazza narrò l’esperienza terribile di guidare fuori dalla comunità attraversando un letto di corpi morti. All’inizio non mi resi conto della potenza dell’attacco e del massacro.

Solo dopo che furono trovate ed evacuate a Ashkelon compresi come fosse stata miracolosa la loro sopravvivenza. 21 membri di quella comunità furono trovati morti, ed almeno una dozzina persi e probabilmente rapiti e portati a Gaza.

Il terzo evento coinvolse mio figlio Ravaye. Egli vive in un kibbutz al Nord. Un amico della stessa azienda aveva una figlia che aveva iniziato da poco il servizio nell’esercito. Quel sabato mattina egli ricevette una telefonata dalla figlia mentre stava facendo una consulenza in Costa d’Avorio. La ragazza era stata chiamata con due mesi d’anticipo. Era un weekend di vacanza ed i soldati di maggiore esperienza erano stati lasciati liberi e le leve più giovani erano state chiamate a coprire la base. Quando iniziò l’attacco, le venne ordinato di coprire l’entrata. Era appena sveglia, a piedi nudi e in pigiama e così corse sul posto. Aveva poca confidenza ancora con le armi e chiamò il padre perché gli allarmi dicevano che erano sotto attacco; pensò che non si trattasse solo di razzi, ma che ci fossero persone che tentavano di penetrare la base. Come nuova recluta le è proibito di mettere il caricatore sul fucile, senza il permesso diretto del superiore. Ma non riusciva a raggiungerlo. E poi non sapeva come attivare il fucile; l’amico di mio figlio era stato in unità di combattimento e così era nella posizione di cercare di guidarla per aiutarla a proteggersi ma anche fare il proprio dovere. Fece del suo meglio, a distanza, con il cuore a mille; ci fu la perdita di sette soldati amici della ragazza in quella base.

Uno dei miei figliastri da anni lavorava nel business dei sistemi elettrici e di suono per eventi musicali. In quel weekend c’era un festival della Pace “natura-musica” nel kibbutz Beeri. Lui non c’era, ma c’erano molti suoi amici. Migliaia di ragazzi, di giovani uomini e donne fecero camping lì per danzare ed ascoltare i gruppi musicali. Quando i razzi iniziarono a venire da Gaza, gli organizzatori si precipitarono a chiudere il concerto e a tornare a casa. Iniziarono a preparare la partenza tra le sirene, ma prima che riuscissero a partire, molti vennero attaccati da pickup e motociclette carichi di terroristi che gli sparavano addosso… molti furono uccisi; 3000 si stima furono i feriti; altri scapparono e cercarono di nascondersi… molti furono catturati e portati a Gaza e torturati.

Il giorno dopo, mia moglie, che è una fisioterapista, ricevette una chiamata da una sua cliente. Per anni aveva avuto in cura i familiari di questa donna, che ora chiamava per condividere la devastazione della sua famiglia: il padre in ospedale con proiettili nella gamba e nella schiena, il compagno, lo zio, la madre uccisi, la cognata operata tre volte per rimuovere schegge di proiettili da tre parti del suo corpo.

I cittadini di Sderot, Ofikim, Nativ Esara e Yad Mordecai (ed altre 20) chiamarono le stazioni Tv dicendo che erano intrappolati in casa e le loro abitazioni erano sotto attacco… essi sono attaccati e non possono raggiungere né polizia né esercito per aiuto, così chiamano le Tv e le Radio perché trasmettano la loro situazione disperata e la loro richiesta di aiuto.

Circa 5000 razzi sono stati mandati su Israele. I bambini regrediscono in massa facendo la pipì a letto, impauriti dal lasciare la stanza di sicurezza (il rifugio antibomba); ragazzi e giovani soprassaltano ad ogni rumore, non riescono a dormire, tornano a cercare un vano senso di sicurezza dai genitori. Tutti i bambini del paese sono stati traumatizzati. Bambini che non dormono perché c’è la paura che un terrorista possa entrare in casa ed ucciderli. Hamas ha pubblicato sui social video raccapriccianti di uccisioni, torture, abusi di corpi di Israeliani: tutto ciò eleva il livello della paura e del trauma.

Dopo il primo giorno, il numero di terribili storie umane sale… molti genitori piangono: dove sono i miei figli? E i bambini a loro volta: dov’è la mamma? Il papà? Il fratello? Tante famiglie in cerca dei loro parenti persi!

Ho sostenuto come psicologo, prima di questo orrendo giorno, che in Medio Oriente ciascuno è traumatizzato in primo luogo dalla sua origine (Ebrei ed Arabi: l’Olocausto, l’esodo di massa dall’Africa del Nord e l’esistenza “marbarot” che seguì negli anni ’50, la perdita della casa per le comunità Arabe nel 1948, la povertà e la fame di coloro che venivano da Etiopia ed Eritrea alla ricerca della “ terra promessa”, la deprivazione dei campi profughi….); insieme agli eventi delle guerre precedenti e degli attacchi terroristici intermittenti lungo il corso degli anni.. ma se questo è stata la base del trauma culturale collettivo, gli ultimi giorni sono stati completamente devastanti. Tutte le illusioni di forza, sicurezza, sostenute dalla forza militare e dalla sofisticatezza della tecnologia utilizzata. Tutte le illusioni e la confidenza nel “mai più accadrà”… mai più. Era mai più fino a ieri, quando è successo ancora.

In mezzo a tutto quest’orrore, ci sono stati due elementi positivi. Il primo è l’efficacia del sistema Iron Dome. Senza di esso, la lista dei feriti sarebbe enorme.

Il secondo: sin dal primo momento dell’attacco, circa 1000 sopravvissuti delle comunità prossime a Gaza furono evacuati in aree relativamente più sicure (Eliat, Area del Mar Morto, Gerusalemme e Tel Aviv); migliaia di volontari portarono cibo, vestiti, forniture igieniche ed assistenza in termini di servizi sociali e terapeutici. L’Associazione israeliana di Sandplay si mobilitò ed organizzò dell’assistenza volontaria. I terapisti stanno attuando forme modificate di Sandplay therapy negli hotel e nei rifugi dove sono stati collocati gli evacuati. Membri della comunità di Sandplay sono andati a Eliat, nei centri del Mar Morto, a Gerusalemme (nello stesso albergo dove si è svolto l’ultimo congresso ISST!), ad accogliere persone traumatizzate provenienti dalla Striscia.

Impostare un programma in quelle circostanze richiede una grande flessibilità ed adattabilità all’urgenza del momento, usare gli spazi disponibili rispetto alle classiche condizioni terapeutiche, essere molto adattivi ai bisogni e alle sensibilità dei clienti. Genitori e figli vengono a costruire gli uni accanto agli altri, i cugini vogliono farlo insieme, altri arrivano riluttanti, prima guardano gli altri, e solo poi iniziano a farlo in modo autonomo.

Due terapeuti cercano di gestire 10/12 persone in contemporanea. Alcune persone non riescono a fare alcun commento, altri cercano l’ascolto e non riescono a smettere di raccontare quantità di vissuti di paura e dolore.

Condivido il layout spontaneo della sala di Sandplay; alcuni disegni anonimi di ragazzi lasciati negli spazi pubblici e due vassoi di Sabbia di sopravvissute ad una comunità colpita da massacro, che hanno dato il loro consenso.

Il primo disegno a destra del “mondo a fuoco” parla da sé.

Sopra a quello a sinistra c’era scritto in ebraico: “la luna non dà più luce al cielo notturno”.

Una madre ed una figlia rimasero nascoste dieci ore, mentre i terroristi si aggiravano nel loro villaggio, colpendo chi trovavano. Vennero ritrovate e portate a Ashkelon.

Qualche giorno dopo, composero questi vassoi:

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la figlia creò un safari park. Disse che il blu erano le strade che attraversavano il parco, ma servivano anche per separare gli animali, soprattutto i predatori dalle prede. Osservate il leone e il ghepardo nell’angolo in alto a destra e il lupo al centro in alto. Mentre i vegetariani, la gazzella e la giraffa, sono dietro la strada e dietro ad alberi ed arbusti. Da notare che mentre ella definiva l’intenzione di avere spazi separati e protetti, la realtà visiva è che le separazioni hanno ampi stacchi negli spazi (un aspetto di vulnerabilità, pur quando si vuole creare spazi “sicuri”).

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Il vassoio della madre racconta una storia differente. C’è una piccola, umile, contadina che va a prendere un secchio d’acqua vicino ad una casetta parzialmente protetta da una grande duna di sabbia. Opposto alla donna c’è un grande castello ornamentale, con una principessa davanti. Nell’angolo in alto a sinistra ci sono due guerrieri e due pantere nere; un altro è nella parte bassa del vassoio. Ella identifica le figure nere nei Vichinghi che vengono da un’altra terra, con i loro cani aggressivi, alla conquista di nuove terre. I bastoncini blu nella parte in alto a sinistra rappresentano il Mar Rosso che fornisce una barriera, rispetto all’entrata nella terra e l’attacco alla contadina. Ma il guerriero sotto è già dall’altra parte, il mare che non poteva essere attraversato è stato superato. Ella disse: “Il castello, la casa della regina e della principessa… pensavamo che fosse reale, invece era un’illusione. La realtà è data dalla contadina, vulnerabile, priva di aiuti, attaccata dai Vichinghi: senza mezzi per difendere se stessa e i suoi figli”.

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Un ragazzo di 17 anni fece una serie di disegni sul tema dell’aggressione, rabbia, distruzione, cinismo. In essi c’erano elementi di violenza, attacco, tombe, esplosioni, un soldato israeliano che esplode, un uomo con il fucile, riferimenti a Gaza ed Israele. Ha chiamato questo disegno “Una casualità del Sé”.

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Nel disegno successivo c’è un riferimento a ciò che chiama “Il corso della Storia”. Sopra c’è la scritta Ottimismo, sotto Pessimismo. Da sinistra a destra c’è una mappa condensata con alcune date critiche: 1914 (GM1), 1945 (Bomba atomica), 1948 (creazione di Israele), 1945-50 (Guerra fredda). Sulla destra c’è la mappa del Medio Oriente con Israele in esplosione. Nel centro un uomo in un letto di terapia intensiva con la scritta Genere Umano. Il letto sta su un piano che dice “Non dimenticare”, con il Non sbarrato. A destra c’è Israele a fuoco.

Penso sia un’immagina adeguata a quanto stiamo vivendo: il Paese, l’area è in crisi. Tutto Israele è stato traumatizzato dagli eventi del 7 ottobre, gli ostaggi, i continui bombardamenti. I cittadini di Gaza non lo sono meno, per la risposta di Israele all’attacco e ai rapimenti.

La gente però si è mobilitata per supportare i sopravvissuti fornendo loro difesa, vestiti, cibo. I terapisti di ogni orientamento sono corsi nei centri per accogliere i rifugiati. I terapeuti della Sandplay sono stati proattivi nel correre ad Eliat, nei centri sul Mar Morto, a Ein Gedi, Gerusalemme, Tel Aviv, dove sono stati forniti servizi di grande valore per la sopravvivenza di figli e genitori.

Questi esempi sono un assaggio di come le arti espressive e la Sandplay possano aiutare a trovare un modo per integrare i traumi inimmaginabili che si svolgono intorno a noi.

 

PROFILO DI BERT MELTZER

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Dr. Bert Meltzer

  • M.A. e Ph.D. Clark University, Worcester, Mass. USA
  • Psicologo Clinico in Israele e California, USA
  • Co-fondatore dell’associazione Israeliana di Sandplay (ISTA)
  • Past President dell’ISTA
  • Membro didatta dell’ISST 
  • Attualmente è rappresentante dell’ISTA al Board ISST

Ha conseguito il dottorato in Psicologia Clinica presso la Clark University, Worcester, Mass., nel 1969. La sua tesi di dottorato trattava dell’impatto dell’educazione interraziale sulla psiche degli studenti partecipanti. Ha lavorato per quattro anni nel servizio di salute mentale nel nord della California per poi spostarsi in Israele e, successivamente, fondare l’Associazione Israeliana Sandplay Therapy per lavorare sul trauma (insieme a Rina Porat e con la supervisione di Joel Ryce-Menuhin). Negli ultimi 40 anni ha lavorato per molti anni alla Hebrew University, presso i Servizi Psicologici del Ministero dell’Istruzione, e in studio privatamente.

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L’AISPT, espressione italiana della International Society for Sandplay Therapy ISST, si occupa di formazione, ricerca, condivisione di esperienze e conoscenze sulla psicologia con il metodo del Gioco della Sabbia, all’interno di una rete internazionale che facilita lo studio, la discussione specialistica e lo scambio tra i terapeuti. La Sandplay Therapy fornisce un linguaggio simbolico anche a chi non ha parole per esprimere il proprio malessere, consentendo di rappresentare il mondo interno così come si è costellato.

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