di Giuliana Bitelli.
Cercami gli occhi,
cerca le mie ferite
per fasciarle con bende di luce.
Ermes Ronchi, domenica 20.10.2024
Come legni storti
La 20ª edizione di “Torino spiritualità” svoltasi dal 25 al 29 settembre 2024 porta un titolo che rende omaggio a Kant e alla sua concezione dell’uomo: Come legni storti. L’imperfezione, l’errore, l’inciampo, dove l’imperfezione è costitutiva di ciò che siamo, la marca della nostra naturale fragilità, ma anche occasione, grazie all’abbaglio, per rettificare comportamenti e idee sul mondo. In un clima sociale di grande performatività, viviamo le sviste come umilianti, i fallimenti esposti agli altri come paralizzanti. Il logo della rassegna porta l’immagine di legni drittissimi e geometrici (recanti una piccola imperfezione) che formano una barca a vela che solca l’intricato mare, come a dire che anche l’imperfezione può essere una via. Su questa scia, intendiamo ora affrontare il femminile materno nella sua imperscrutabile traccia di fallimento procreativo, valutandone gli aspetti di delusione generativa, individuale e di coppia, e cercandone i frutti, nonostante tutto, nutrienti.
La potenza del materno generativo
Le veneri paleolitiche sono piccole statue preistoriche raffiguranti donne con gli attributi sessuali molto pronunciati e ritratti con certo realismo. Vengono dette anche “veneri steatopigie” cioè dai potenti fianchi. Alcuni esempi: la Venere di Berekhat Ram: l’oggetto è di tufo rosso, lungo 35 mm, con almeno tre incisioni eseguite sulla sua superficie da una pietra tagliente; si desume che il blocco di tufo sia stato modellato da mani umane. L’oggetto ritrovato tra due strati di cenere venne datato come risalente a circa 230.000 anni fa, e se l’interpretazione del reperto fosse corretta, saremmo di fronte al più antico esempio di arte preistorica scoperto finora. La Venere di Willendorf (30.000-25.000 anni a.c.), rinvenuta in Austria e custodita al Naturhistorisches Museum di Vienna, è una statuetta di 11 cm d’altezza, scolpita in pietra calcarea e dipinta in ocra rossa, raffigurante un fisico femminile steatopigo.
Fra le numerose manifatture antiche abbiamo anche la Grande Dea Madre (Collezione Mainetti, New York). Tali raffigurazioni corrispondono alle prime speculazioni dell’uomo neolitico intorno al rapporto tra natura e vita: l’osservazione del ciclo delle stagioni suggerì che la vita stessa era legata a un ciclo. Essendo la donna origine della vita del figlio, si sarebbe sviluppato un culto della Dea Madre. La Grande Madre, anche Grande Dea, o Dea Madre, è una divinità femminile primordiale, che ha assunto forme molto diversificate in numerose culture e popolazioni di varie aree del mondo a partire dalla preistoria, sia nel periodo paleolitico, sia in quello neolitico. La sua figura rimanda al simbolismo materno della creatività, della nascita, della fertilità, della sessualità, del nutrimento e della crescita. Connessa al culto della Madre Terra, essa esprimeva l’interminabile ciclo di nascita-sviluppo-maturità-declino-morte-rigenerazione che caratterizzava sia le vite umane, sia i cicli naturali e cosmici. La simbologia della Grande Madre rimanda alla fertilità della terra e alle forze telluriche e risulta collegata anche con la Luna, autentico cronometro dell’era primordiale. Anche per Jung, come per gli uomini dell’antichità, la Grande Madre è una delle potenze numinose dell’inconscio, un archetipo di grande (e ambivalente) potenza, salvatrice e nutrice ma al contempo distruttrice e divoratrice. Un esempio pittorico del culto della nascita e del materno che tutto genera è L’origine del mondo, dipinto da Gustave Courbet nel 1886 ed esposto al Museo d’Orsay di Parigi: inno alla potenza vivificatrice dell’eros e alla relazione che intercorre tra fecondità, vita, sessualità e gioia di vivere.
Le madri, custodi nel loro grembo delle origini dei propri figli e delle proprie figlie, sono l’incarnazione di un sapere profondo: profondo quanto il loro corpo materno, istruito da quell’evento prodigioso che è concepire e mettere al mondo un bambino, così associabile a momenti prodigiosi della creazione del mondo. Negli eventi della nascita e della rinascita al di là della morte è implicata la potenza della creazione. Le madri narrano con la loro esistenza procreativa: il tessuto del racconto di madre è parola ma ancora prima è corpo ed è infarcito di nascita, di antecedenti della nascita di ciascun figlio, di promesse legate alla vita della madre e del figlio.
La madre, col suo corpo dedicato, è colei che sarà memoria di nascita di quel figlio speciale. Il racconto della madre, anche in forma di corpo trasformato, testimonia qualcosa di specifico e insostituibile della nascita e della rinascita, tra creazione del mondo ed emersione di un nuovo mondo; la sapienza di concepimento e nascita della madre è metafora di orizzonti nuovi e ampi, e noi tutti figli e figlie lo sappiamo.
Il materno generativo imperfetto: la ferita della sterilità
Con tali premesse di potenza generativa, oggetto di culto e venerazione dagli albori del mondo umano e quindi patrimonio dell’inconscio collettivo fino a oggi, possiamo già intuire quanto frastuono possa generare nell’inconscio-conscio di ciascuno di noi l’incapacità procreativa. Il vissuto psicologico di infecondità è diventato diffuso e frequente, sino a costituire, anche solo dal punto di vista psicologico, “un’emergenza epocale” (Finzi, p. 129). Il crollo delle ideologie, la sfiducia verso ogni progettazione a lunga scadenza, la vita frenetica e lontana dalla natura, una sorta di debilitazione delle pulsioni vitali hanno incontrato “un’atrofia dell’investimento generazionale”, una risposta organica alla spontaneità generativa. Il crollo delle nascite costruisce infatti “un modello delle attuali società avanzate a bassa natalità” (Finzi, p. 116). Per interpretare la sterilità dobbiamo considerare un intreccio multifattoriale complicato, dove l’esistenza di contenuti psichici inconsapevoli ha un posto d’elezione. Se l’attesa di un figlio enfatizza le componenti decisionali otre che pulsionali, la sterilità evidenzia invece l’aspetto irrazionale e tragico del desiderio frustrato di genitorialità.
È vero che la società attuale non colpevolizza né sottovaluta, almeno nei suoi ambienti più evoluti, le donne senza figli, e sebbene non sia più necessario includere nella propria identità la componente materna e una donna senza figli possa sentirsi tale anche senza essere madre, non possiamo negare che la sterilità involontaria costituisca una delle prove più difficili da superare: è verosimile infatti che la donna desiderosa di maternità ma sterile possa avvertire una menomazione narcisistica lancinante. Teniamo presente come sia ben diverso da un lato rifiutare la maternità perché non rientra nella propria prospettiva di vita e dall’altro non riuscire a realizzarla nonostante lo si desideri; solo quest’ultima alternativa corrisponde all’esperienza psichica di sterilità, immancabile antecedente della fecondazione assistita o Procreazione Medicalmente Assistita (PMA). Sapendo che il desiderio investe solo ciò che non si ha e che la mancanza lo alimenta e lo rinfocola fino a renderlo pervasivo e totalmente coinvolgente, la donna che desidera procreare ma diagnosticata sterile “si sentirà privata nell’essere con una intensità che non trova negli altri adeguato riconoscimento” (Finzi, p. 117). Pur essendo facilitata nel successo professionale, nella mobilità sociale e nella disponibilità a se stessa, la donna infertile è definita sterile come una canna, una metafora biblica che attribuisce a una inadempienza naturale il senso di una condanna morale e una esclusione dal gruppo di coppie e donne con figli; una sorta di punizione assurda per una colpa imperscrutabile. Sembra che le categorie psicologiche siano insufficienti a esprimere un’esperienza di privazione che si radica nella più esclusiva intimità e accomuna donne le più diverse. A mettere in moto il processo generativo sembra essere il desiderio inconscio che intreccia l’assenso all’ignoto. L’ “io voglio” può incontrare i suoi limiti proprio nell’esperienza della sterilità (e dell’aborto) nella quale si manifesta intensamente la natura contraddittoria e conflittuale del desiderio umano. Se la maternità rappresenta un trionfo sulla sterilità, sappiamo che il corpo e l’inconscio devono insieme coniugare un desiderio di gravidanza condiviso. Quando una donna sterile parla di sé reclama una generica compensazione alla sua mancanza e dice “vorrei un figlio”; in realtà il suo desiderio inconscio richiede una precisa realizzazione ossia “voglio il mio bambino” (Finzi, p. 118-119). Per comprendere il senso dell’esperienza femminile di sterilità non basta rappresentarla in termini di grembo vuoto contrapposto al pieno di quello gravido, dovremmo invece distinguere l’inesistenza come ciò che non è mai giunto a essere/esserci, dalla assenza che presuppone una presenza, nella mente e nel desiderio della donna che vorrebbe diventare madre, la quale dice “non ho un bambino, il mio bambino non c’è”; il grembo materno può essere vuoto, mai la mente. Prima di esistere nel corpo il figlio vive nell’immaginario inconscio da dove non potrà essere espulso. Nella sterilità coesistono dunque due opposte esperienze: quella di mancanza di figlio nel reale e quella di presenza di figlio nella fantasia. L’imperfezione della natura e del corpo, il gap tra desiderio e realtà, la fallita realizzazione del sogno gettano sull’oggetto immaginato l’ombra della malinconia che può trasformarsi in mania (Finzi, p. 120). “Sembrano regine. Camminano imperiose, a volte nella sacralità inviolabile che accompagna le donne in attesa. Osservo quelle pance con un misto di invidia e buon auspicio. Alcune sono tonde e perfette, alcune più discrete, altre spropositate e prive di grazia. Ma come diavolo avete fatto? [….] solo chi da anni cerca un figlio può comprendere la disperazione quando si presentano puntuali le maledette” (Mazzoni 35-36). La perdita della capacità procreativa implica qualcosa di più della sola perdita della fertilità; c’è la perdita della sessualità spontanea, dell’esperienza della gravidanza in sé, dei bambini e della continuità genetica; c’è stigma e isolamento. A questi vissuti si associano sentimenti di lutto, ansia, disperazione, depressione e invidia verso gli altri che hanno i bambini; l’effetto della sterilità è considerato alla stregua di una malattia fisica importante o del lutto per la perdita di un congiunto. La ferita narcisistica conseguente all’impedimento alla generatività è importante e il trauma rischia di risolversi in un lutto senza fine. Nei secoli il sentimento di totale impotenza e sconfitta che il trauma della sterilità produce è stata immaginata come fonte di vergogna da tenere nascosta e coprire con il segreto (Marion, p. 100-102).
Un figlio a tutti i costi
Se l’ovulazione rinnova quella speranza di fertilità e ogni mestruazione rappresenta una delusione dell’attesa, la traccia del sangue simbolizza una ferita che il tempo non riesce a cicatrizzare: la donna entra in un’alternanza ciclica che conferma che il bambino non nato c’è (nella mente) e non c’è (nel corpo) al tempo stesso. La scelta offerta dalla procreazione medicalmente assistita è il modo di reagire e opporsi al destino che si è sentito ingiustamente imposto (Marion, p. 107). I progressi scientifici e tecnologici offrono opportunità fino a poco tempo fa impensabili per venire incontro e aiutare a risolvere empasse così dolorose e invalidanti. L’esclusione dal gruppo di altre coppie e di altre donne con figli è un motore potente che sostiene ripetuti e protratti tentativi di intervento tecnologico sul proprio corpo anche quando sconsigliati dai medici. E forse la difficoltà a elaborare il lutto della perdita di una rappresentazione di integrità di sé è ciò che sembra spingere le coppie a rivolgersi alla tecnologia sempre più raffinata e a insistere nel loro desiderio di procreare a tutti i costi. Accanto alle frequenti e possibili negazioni dei sentimenti di fallimento personale e di coppia, il ricorso alla tecnologia stimola l’urgente pretesa del superamento del difetto organico e del lutto della capacità procreativa, portando con sé sia la scissione mente-corpo sia il rischio di disconoscere la profonda relazione biunivoca tra i due termini. Ci si può chiedere se il desiderio narcisisticamente incontenibile sia connesso al senso di onnipotenza, se esista un diritto alla procreazione a qualsiasi costo, se il desiderio pulsionale che non passa dalla ragione possa coincidere con l’azione, una hybris che sfiora l’onnipotenza e l’ossessione della genitorialità, se sia possibile uno scardinamento della pratica generativa antica come il mondo con un gesto tecnico: esso però non include un tempo riflessivo che riconnetta l’Anima al corpo; ci dovremmo chiedere ancora se non siamo prossimi a una mutazione antropologica dove reificazione dell’uomo e deificazione della Techne possono guadagnare il posto di determinanti umane e sociali.
La Scienza ha demolito gli ostacoli, la Tecnica ha reso possibile il superamento di ogni limite, la tecnologia ha colonizzato il nostro corpo con impianti, trapianti, protesi; la naturalità dell’uomo e della donna è spesso marginalizzata, anche se la Natura è la base biologica con le sue leggi, la sua intelligenza, la sua forza e la sua capacità di presentare limiti. Forse nel tutto è possibile e nel tutto e subito c’è l’incapacità di accettare la frustrazione che la vita ci riserva? Forse l’accoglienza del limite e della sofferenza connessa possono diventare strumento di crescita nell’esistenza personale? (Bianchi, p. 52-66). Il legame tra sessualità e procreazione affonda le sue radici nell’idea di contrastare la morte, proseguendo la vita attraverso qualcuno che è parte di noi e va al di là di noi. La sterilità mette in moto invece pensieri e sentimenti di morte, proprio quelli che la procreazione evade; se la natura mette impedimenti alle possibilità procreative, di fatto mette in crisi la continuità antropologica basata sul vincolo sessualità-filiazione e sull’effetto della continuità transgenerazionale; se la battaglia per vincere la sterilità è anche la battaglia per vincere il senso di morte ad essa collegato, si capisce bene la posta in gioco di un percorso di procreazione medicalmente assistita: essa comprende medico e paziente su fronti diversi -ma con simili coinvolgimenti- (Marion, p. 108-110).
Quale coppia generativa?
Tutti gli attori della scena tecnologica che rendono la procreazione tecnologica possibile sono coinvolti in un progetto che riguarda la creazione della vita. Le ricadute psicologiche e tecnologiche riguardano sia Paziente che Medico; le proiezioni invadono la scena e non è infrequente che il ginecologo sia investito dalla fantasia che sia lui il vero padre del bambino in quanto, col suo gesto tecnico, ha consentito la gravidanza. Passaggi tecnici specifici possono inoltre essere identificati con l’atto sessuale che è venuto a mancare, come ad esempio l’iniezione citoplasmatica fecondante il grembo femminile, fantasticata come un atto di penetrazione, quell’atto che nella realtà non c’è stato e, se c’è stato, non è stato fecondante. Il gesto tecnico è simbolizzato in “iniezione di paternità”: solo così ricongiunge i corpi e le menti dei due partner esclusi dall’alcova amorosa.
Anche un altro attore della scena di nascita compare: il donatore/donatrice di materiale genetico o di utero gestazionale si insinua come un’ombra all’interno della coppia occupandone la zona più vulnerabile, il nucleo di intimità condivisa. Non meraviglia dunque se i vari personaggi che partecipano al processo di fecondazione assistita sul versante medico vengono investiti di fantasie sessuali da parte delle pazienti e delle coppie, nel tentativo di riprendere a livello fantasmatico qualcosa di cui ci si è sentiti esautorati e spogliati a livello fisico (Marion, p. 109). All’interno della coppia sessuale e affettiva si insinua il terzo (in)atteso che è sia scomodo in quanto sostituisce l’atto sessuale e rischia di ridurlo a immiserito e inutile scambio amoroso, sia comodo in quanto promette il conseguimento del risultato (Marion, p. 110).
Lo straniero che si annida nel ventre reso fertile dalla tecnica e non dall’amore
La procreazione assistita presenta diverse soluzioni: omologa, eterologa, maternità surrogata… Ognuna di queste possibilità offre soluzioni a problemi che sembravano prima irrisolvibili, ma pone richieste psichicamente sempre più impegnative oltre che dal punto di vista etico anche dal punto di vista delle risonanze emotive e psicologiche profonde (Marion, p. 171). Il materiale genetico immesso nel corpo della donna (sterile o facente parte di una coppia omo) proviene da territori sconosciuti, i più diversi e lontani, dietro ad esso non esiste una persona in carne e ossa che possa essere riconoscibile anche solo per il dono offerto; i confini diventano labili, un ignoto entra nel corpo e nella mente di una coppia che si affida alla PMA o altre risoluzioni procreative. Il trapianto di organi, che conosciamo ormai da tantissimi anni, è simile, se ci pensiamo, all’immissione di materiale genetico donato, anche se il donatore d’organo è riconoscibile come persona diversamente dal donatore di materiale genetico; sia l’organo sia il materiale genetico non sono oggetti meccanici ma un frammento di altra persona, carico di storia, che genera fantasie e ipotesi: esso diventerà parte di noi e dovremo integrarlo nel nostro corpo e soprattutto nel nostro vissuto personale; è possibile che la persona che riceve questo “organo genetico” sviluppi il timore di perdere l’integrità della propria persona, faccia un’esperienza di alterazione dei confini personali, l’identità biologica stabile potrebbe essere sostituita da un’identità più fluida caratterizzata dalla necessità di integrare anche parti di altri. Si realizza un cambiamento epocale delle origini della vita: l’origine proviene da un altrove ignoto che trasforma il prodotto del concepimento in un estraneo-straniero perturbante, un “clandestino a bordo della sua nave-ventre-corpo” (Maraini, 1996): chi c’è dentro di me? Cosa porto in grembo? Da dove viene l’essere che si muove dentro il mio ventre? come si svilupperà questo corpo estraneo che porto in petto? Che destino avrà? Come condizionerà la mia vita? Se tali dubbi e incertezze possono presentarsi anche per le gravidanze “naturali”, a maggior ragione rappresentano un vissuto per le gravidanze che utilizzano materiale eterologo. Tutto ciò comunque disegna una trasformazione della gestazione naturale che ha fatto da filo conduttore alla storia antropologica dell’uomo; per comprendere i nuovi modi di nascere sembra necessario cogliere la nascita di nuovi modi di pensare la relazione con se stessi e con altri (Marion, p. 174). Il concetto di integrazione allora dovrà intrecciarsi con il senso di continuità dell’esistere; “avere la capacità di una interazione introiettativa e proiettiva con il non-me rappresenta l’apertura dei confini e l’espansione della vita” (Marion, p. 175). L’esistenza del confine è necessaria infatti alla vita, abbiamo bisogno di confini per esistere e per costruire la nostra identità. Si può esistere senza radici e senza sentimento di appartenenza? Si tratta di una necessità né patologica né delirante, ma che concerne un polo fondamentale del processo di umanizzazione della vita. Senza la dimensione simbolica dell’identità la vita perde se stessa, si polverizza, si frammenta, non ha più un centro e al contempo non sa più differenziarsi, non sa più riconoscersi nella sua differenza. Vogliamo da una parte preservare la nostra identità dal rischio della sua alterazione provocata dalla concorrenza invasiva dell’Altro; dall’altra vogliamo invece l’apertura, la necessità di oltrepassare il confine. Se, infatti, la vita non sa scavalcare il regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal proprio bisogno di appartenenza verso una contaminazione con l’alterità dell’Altro, fatalmente stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa. Se un figlio “naturale” è un’apertura all’ignoto, un figlio “artificiale” è una doppia apertura a un ignoto più grande e impegnativo: l’ignoto dell’essere che comparirà alla fine della gestazione si intreccia con l’ignoto delle origini dei geni che andranno ad annidarsi nelle profondità uterine. Sappiamo che la vita che si ammala è quella che resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza omeostatica alla propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica, rafforza unilateralmente il proprio confine narcisistico. Venendo meno l’ossigeno indispensabile dell’alterità, la vita si ammala e declina. Se il confine serve a rendere la vita propria, esso dovrà diventare, come si esprimeva Bion, “poroso”, permeabile, luogo di transito. La vita può conservarsi solo espandendosi, oltrepassando il confine del soggettivo. E allora la necessità del confine va quindi unita con la necessità del transito al di là del confine. Nel complessissimo gioco della procreazione voluta e ottenuta con artifizi medicali è possibile che la difesa della purezza identitaria sia sempre animata da un fantasma fobico che non lascia spazio allo straniero, oppure che lo spazio per l’Altro-sconosciuto ci sia ma poi, a gestazione avviata, esploda la paura dell’ignoto: l’estraneità di chi abita il ventre materno reso fertile secondo un desiderio a lungo coltivato può prendere il sopravvento.
Il valore della nascita e della vita
In conclusione siamo di fronte a molti opposti intrecciati: il desiderio naturale di procreare vita oltre il limite della propria, il rifiuto del proprio limite procreativo, l’ossessione di superarlo con impianti a ripetizione fino allo sfinimento di ostinazione e denaro, la paura inquietante dell’ignoto delle origini e dell’ignoto fisico dentro di sé (“un clandestino a bordo”), la sostituzione dell’origine naturale con un’origine sociale e una fecondazione tecnologica, la necessità di aprire la porta al diverso-Altro che viene o dal freddo o comunque da lontano, da un dove sconosciuto. L’ostinazione e la responsabilità, la forza del desiderio e la capacità del limite: un equilibrio davvero difficile e faticoso da scegliere e da conquistare. Per consentire alla vita di continuare a vivere è necessario “il meticciato, la transizione, la porosità dei confini, la contaminazione con lo straniero” (Recalcati, 2012) fino però al limite dell’onnipotenza che rende deificata la scienza: questa invece rimarrà la nostra alleata, non la nostra concorrente o sovrana. Noi terapeuti di fronte a coppie o donne infertili considereremo tutto questo e anche altro, tenendo comunque conto del fatto che se i genitori accettano la ferita narcisistica della sterilità possono ammettere la loro insufficienza generativa e la conseguente ricerca dell’aiuto degli altri (Finzi, p. 200). Il lavoro psichico di umanizzare un evento tecnico sarà allora più facilmente compiuto dai genitori che intraprendono un processo di elaborazione della nascita sulla base di un desiderio sincero ma fermandosi appena prima dell’onnipotenza e della maniacalità. Il diritto della donna alla procreazione risentirà dell’antichissima potenza del femminile-madre rappresentato dalle dee arcaiche restituite da ritrovamenti e scavi archeologici e testimoni dei miti antichissimi che ci nutrono ancora oggi, ma saprà anche farsi carico del limite della natura e trasmettere la vita in altre forme creative e originali.
Bibliografia
- Bianchi V., Ceresa S., Putti S. (2016), Utero in anima, Roma, Lithos
- Binetti P. (2016), Maternità surrogata. Un figlio a tutti i costi, Roma, Edizioni Scientifiche Ma.Gi.
- Maraini D. (1996), Un clandestino a bordo. Le donne: la maternità negata, il corpo sognato, Milano, Rizzoli
- Marion P. (2017), Il disagio del desiderio. Sessualità e procreazione nel tempo delle biotecnologie, Roma, Donzelli Editore
- Mazzoni E. (2012), Le difettose. Volere un figlio a tutti i costi può dare dipendenza? Torino, Einaudi
- Recalcati M. (2012), Ritratti del desiderio, Milano, Raffaello Cortina Editore
- Righetti PL., Luisi S. (2007), La procreazione assistita. Aspetti psicologici e medici, Torino, Bollati Boringhieri Psicologia
- Vegetti Finzi S. (1999), Volere un figlio. La nuova maternità tra natura e scienza, Milano, Mondadori Saggi