Terapeuta e fotografia nella Sandplay Therapy

di Giuliana Bitelli.

Riprendo la riflessione sulla fotografia nella Sandplay Therapy, iniziata con l’articolo di commento al libro La camera chiara di Roland Barthes, pubblicato nel numero 0 della rivista Orme.

Prenderò in analisi la fotografia e l’atto di generarla ossia il fotografare, come elementi essenziali e indispensabili del terapeuta-analista di Sandplay.

Mostrerò poi un quadro di sabbia di una paziente, da me riprodotto e fotografato in diversi modi e con differenti tecniche, ottenendo così alcune variazioni che l’atto di fotografare offre.

Vedremo così quanto la fotografia come immagine – frutto di un gesto tecnico – e il fotografare in sé siano forieri di stimoli che potranno essere in futuro ambito di ulteriore ricerca all’interno della Sandplay Therapy.

Parto da una considerazione iniziale: noi analisti “sabbisti” non siamo fotografi, generalmente, ma usiamo la fotografia come momento essenziale della terapia in quanto       la fotografia e il fotografare sono strumenti di lavoro indispensabili per ogni terapeuta-analista di SPT[1], nonostante non siano oggetto di formazione all’interno del training.

Il fotografare è l’atto che crea l’immagine “virtuale” e che trasforma la concretezza dell’immagine tridimensionale materica in immagine simulata non tangibile, rivisitabile in futuro. Rappresenta il momento del “fare” del terapeuta-fotografo, un intervento concreto sulla psiche del paziente espressa in tridimensione. Esso segue la lettura della scena di sabbia che il terapeuta effettua “dal vivo” insieme al paziente immediatamente dopo la costruzione della stessa; al contempo precede una prossima eventuale rilettura che l’analista farà, in solitaria oppure insieme ad altri colleghi per un’intervisione o in presenza di un supervisore.

La fotografia è l’“oggetto” finale dell’atto di fotografare, il risultato dell’uso – professionale o istintivo-spontaneo – della macchina fotografica oppure – oggigiorno con più frequenza – del cellulare o dell’i-Pad. L’immagine ottenuta va ad archiviarsi all’interno di una scheda di un cellulare o di una macchina digitale, oppure su un vecchio e caro ma desueto rullino fotografico. Se il terapeuta è “ordinato e necessariamente un po’ maniacale” sistemerà la foto dentro una cartella – ormai pressoché sempre virtuale – e lì la troverà ogni volta che vorrà richiamarla allo sguardo.

La fotografia e il fotografare in questo caso rispondono alla triplice esigenza di:

  1. descrivere cosa il paziente ha costruito con le mani, con l’acqua, con le miniature umane, animali ecc., rendere visibile nel tempo futuro tutti gli elementi dell’immagine: distanze tra gli oggetti, scavi e montagne, folla di personaggi o deserto di presenze, colori;
  2. sottrarre l’immagine concreta e tridimensionale all’oblio a seguito della de-costruzione da parte del terapeuta dopo l’uscita del paziente dalla stanza di analisi;
  3. archiviare il lavoro complessivo di quel certo paziente, mettendo in successione le varie scene di sabbia, datandole, numerandole, in sintesi rendendole recuperabili sia per le riflessioni del terapeuta sia per la rivisitazione di paziente e terapeuta insieme in fase finale o post-finale del percorso analitico.

Il terapeuta potrà così “riesumare” l’immagine virtuale, metterla nuovamente di fronte agli occhi, farsi pervadere dalle forme e dai colori presenti, riconnettersi con le emozioni vissute al momento della costruzione, con i pensieri e le intuizioni che aveva abbozzato in precedenza su quell’immagine; potrà così attivare i contenuti simbolici e archetipici che lo aiuteranno nella disamina del processo di sviluppo individuativo del suo paziente. Sarà un’esperienza individuale o alla presenza di altri sguardi ed emozioni di colleghi per una lettura a più “mani-occhi-cuori”.

A questo punto dobbiamo introdurre altri elementi caratteristici della fotografia oltre a quelli descrittivi, documentaristici e archivistici; dobbiamo occuparci di altri elementi del gesto del fotografare oltre a quelli dell’azione, della produzione di un’immagine virtuale, dell’esercizio – cosciente o inconsapevole – di una tecnica grazie all’uso di uno strumento tecnologico (moderno o antico che sia); il fotografare non è semplicemente il gesto del dito del fotografo né lo scatto ferma-immagine.

La fotografia non è solo “fissativa” o “diaristica” come ci suggerisce Calvino nel racconto L’avventura di un fotografo[2], è anche una realtà simbolica che contiene quegli elementi di sorpresa e meraviglia che Barthes chiamava il punctum, elemento rivelatore di una verità nascosta, da cercare, da “sentire” emozionalmente e tradurre in realtà di senso nuovo. Quell’immagine simulata è così vera e concreta da rendere presente l’autore della scena tridimensionale e materica pur nella sua assenza fisica. Quindi non è la commemorazione, diceva Barthes, a connotare la fotografia, e, diciamo noi, la specifica fotografia di materiale psichico, ma la sua potenza rivelatrice di segreti e verità, sotto la maschera dell’apparenza immediatamente visibile.

“Il segreto stava altrove” dice ancora Calvino nel citato racconto (Barthes si riferisce molto a Calvino e al suo racconto del 1970 nella scrittura del suo libro La camera chiara); e ancora: “Ciò che appare è una maschera che contiene più verità di ogni immagine che si pretenda ‘vera’: porta con sé una quantità di significati che si riveleranno a poco a poco”. Questo è esattamente ciò che accade durante un percorso di rivelazione del Sé: una scoperta graduale e a tappe, con un intreccio sempre più complesso tra i vari fili che vanno a formare la trama e l’ordito della tela nuova.

Anche l’atto del fotografare porta in sé altri elementi che non sono solo produttivi di immagini da archiviare e ritrovare nel futuro; è anche il gesto di “caccia dell’inafferrabile”, di ricerca del punctum; il fotografo (in erba o professionista) è il cacciatore di una realtà sfuggente e misteriosa.

Ma andiamo ancora oltre circa l’atto del fotografare: è il momento in cui il terapeuta regola, forse inconsapevolmente, il suo contro-transfert con il paziente; qui esprime, attraverso il modo di usare lo strumento fotografico, la loro relazione terapeutica e il suo procedere. Anche nell’atto di fotografare esiste un inafferrabile, un mistero, aspetti criptici che attendono di essere letti, percepiti, decifrati: questi appartengono al terapeuta che ha l’opportunità di scoprirli.

L’inconscio del terapeuta-fotografo si rivela infatti attraverso le “mosse del click”: la scelta delle inquadrature, della luce, dei contorni, della prospettiva, ma anche del focus, dei contrasti; sono scelte per lo più inconsapevoli se il terapeuta non è fotografo, ma fortemente espressive e significative.

Non trascuriamo inoltre che il fotografare trasforma il tangibile-materico degli oggetti del mondo e in specifico, qui, dei quadri di sabbia, in configurazione immaginale, rivelando così tutta la sua potenza trasformativa (Vercellone, 2023, p.14).[3]

Vediamo alcuni esempi per meglio spiegare i concetti espressi.

  1. La stessa scena è fotografata con una luce diffusa (a sinistra), con luce fioca (centrale) e con una luce radente (a destra) [foto 1.];
  2. Sono stati estrapolati dei particolari, privilegiati rispetto all’immagine globale [foto ];
  3. L’immagine è riprodotta secondo una prospettiva dal basso, come se il fotografo si fosse posto a fianco delle figure [foto ];
  4. L’immagine raccolta include elementi non facenti parte della scena di sabbia ma dell’ambiente esterno: essi vengono a costellare diversamente gli elementi interni alla sabbia: una finestra, un balcone, la casa di fronte, il divano delle sedute, l’altra vasca di sabbia asciutta, parte dello scaffale delle miniature: cosa dicono alle presenze della sabbiera? [foto ];
  5. Il terapeuta-fotografo può scattare foto che poi risultano mosse o fuori fuoco [foto ];
  6. Nella spontaneità dello scatto è anche possibile che l’analista inquadri la scena escludendo dei particolari, il più delle volte inavvertitamente, e magari rendendosene conto ad una seconda visione e riflessione [foto ];
  7. La curiosità del fotografo-terapeuta può portarlo a notare ad esempio un riflesso di luce che lo colpisce e che intuitivamente vuole trattenere e che poi spesso gli parlerà di fili da annodare ad altri [foto ];
  8. Anche la prospettiva può portare elementi di rivelazione del punctum o del segreto da scovare: la prospettiva diagonale è fortemente energica in quanto mette in contatto diretto elementi opposti che altrimenti si ignorerebbero, creando fra loro, invece, un dialogo significativo [foto ].

[1] Da ora in avanti SPT: Sandplay Therapy.

[2] Italo Calvino, L’avventura di un fotografo, in Gli amori difficili, Oscar Mondatori, Milano 1993-2016.

[3] Federico Vercellone, Filosofia del tatuaggio. Il corpo tra autenticità e contaminazione, Bollati Boringhieri, Torino 2023.

Foto 1
Foto 2
Foto 3
Foto 4
Foto 5
Foto 6
Foto 7
Foto 8

Quale particolare tinge la foto di un colore nuovo? Quale il particolare che colpisce e che alza l’intensità emotiva rendendo la foto speciale e unica, foriera di messaggi e porta aperta dei significati simbolici?

Cosa ha voluto dire, inoltre, il terapeuta di sé quando spande luce piatta o quando la condensa radente e tagliente? Cosa ha vissuto quando la macchina foto o il cellulare si sono mossi al momento dello scatto? Si è reso conto di avere tagliato fuori dall’inquadratura dei particolari anche evidenti della scena o di averne inclusi di estranei al quadro di sabbia e che invece diventano appartenenti, quindi “familiari”? Nelle foto selezionate per questo articolo ci sono particolari che “colpiscono come una freccia” l’osservatore rendendo la foto “sua”? (Barthes, 1980)[1].

Qualche particolare forse “ferisce” e va a colpire qualcosa di profondo e di autentico nell’osservatore: il contenuto esplicito, l’uso tecnico dello strumento fotografico, le particolari scelte metodologiche di ottenimento dell’immagine (luce/buio, inclusione/esclusione di particolari, inquadratura dal basso/dall’alto, immagine particolare/generale e complessiva)?

La fotografia “sovversiva” di Barthes e il punctum che folgora e trasforma, sono elementi fondamentali nel lavoro analitico della SPT: essi passano attraverso la realizzazione tecnica di fotografi improvvisati, fotografi ingenui, oppure professionisti o appassionati di fotografia. Il “nucleo irradiante e irriducibile”, “folgorante e vivificante”, arriva a illuminare sia la vita psichica dei nostri pazienti sia qualche angolo silente della nostra stessa psiche di terapeuti, sollecitata dalla relazione con l’autore delle scene di sabbia.

In conclusione, siamo sulla soglia di una porta nuova: fa capolino un campo di attenzione e se mai di ricerca su cui riflettere, un ulteriore capitolo di studio della SPT; sarebbe auspicabile rendere consapevole sia l’aspetto folgorante, ponte dell’essenza, di ogni fotografia, sia il gesto fotografico e la tecnica di esecuzione che da “utili” e “necessari”, strumentali e funzionali possono diventare gesti ad alto valore di senso: senso controtransferale che rivela i vissuti del terapeuta, “crepa” che apre al simbolico e al relazionale.

Ma soprattutto la tecnica di esecuzione potrebbe diventare da spontanea e istintiva a ragionata, da ingenua e sprovveduta a sapiente, in sintesi da inconscia a consapevole.

La macchina fotografica organizza il soggetto da riprendere e trattenere, qualunque esso sia, entro le dimensioni del fotogramma, come ci ricorda Vaccari, ma dietro ogni scatto c’è la mano del terapeuta che vive il paziente in un modo specifico e unico nella varie tappe della loro relazione, che dirige il suo dito e la sua inquadratura in maniera da ritrarre la psiche del paziente ma anche la propria.

Siamo a contatto con la “presenza di informazioni involontarie, di informazioni parassite, di nicchie di mistero, dove il rapporto tra gli elementi è in gran parte ignoto, strutturato a nostra insaputa dal mezzo stesso che usiamo” (Vaccari, 2011, p. 30).[2] Il valore significativo ed espressivo di ciascuna immagine fotografica verrà quindi a essere completamente diverso da quello della pura e semplice “resa fotomeccanica della realtà”.

Ci auguriamo che i gruppi di ricerca già esistenti all’interno dell’Associazione Italiana di Sandplay Therapy o di futura costituzione, possano creare orizzonti nuovi e crescere attorno al nucleo della fotografia come luce e visibilità dell’oggetto, come mezzo di conoscenza a lungo termine, come trattenimento dell’invisibile e del significato essenziale del cammino di paziente e terapeuta.

[1] Roland Barthes (1980): La camera chiara. Note sulla fotografia, Giulio Einaudi editore, Torino, 1980 e 2003

[2] Franco Vaccari: Fotografia e inconscio tecnologico, Piccola biblioteca Einaudi, Torino 2011.

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L’AISPT, espressione italiana della International Society for Sandplay Therapy ISST, si occupa di formazione, ricerca, condivisione di esperienze e conoscenze sulla psicologia con il metodo del Gioco della Sabbia, all’interno di una rete internazionale che facilita lo studio, la discussione specialistica e lo scambio tra i terapeuti. La Sandplay Therapy fornisce un linguaggio simbolico anche a chi non ha parole per esprimere il proprio malessere, consentendo di rappresentare il mondo interno così come si è costellato.

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