Il Doppio nella Fotografia

di Floriana Di Giorgio

“Mi sembra di vedere il mio Io attraverso una lente
che lo rinfranga e moltiplichi;
tutte le figure che si agitano intorno a me sono altrettanti Io
e io mi adiro al loro agire”
(Hoffman E.T.A.)

“Le immagini come le parole
sanno di noi cose che
noi non sappiamo di loro.”
(Riggi C.)

Il tema del doppio, conosciuto anche come sosia, gemello, rispecchio, personalità divisa in due, o moltiplicata per due nella copia di se stessa, ha un’origine antica legata a tradizioni popolari, che lo descrivono sia come un insieme di caratteristiche negative e preoccupanti strettamente correlate a idee di rovina e di distruzione, sia come una qualità dell’essere umano e del divino ben espresso nei miti e nelle credenze delle origini. Secondo la leggenda tedesca, ad esempio, il Doppelgänger (etimologicamente vocabolo composto da doppel, che significa ‘doppio’, e ganger, che letteralmente vuol dire ‘che se ne va’) è il gemello maligno e, in molte mitologie, vedere il proprio doppio è considerato presagio infausto di morte (Giasanti, 2011) e, per questo, in letteratura è stato descritto, spesso, come la controparte spettrale che alberga nell’animo umano, sopita e minacciosa, con un connubio di fascino e malignità. In Africa, invece, presso i Mossi, è diffusa l’idea di considerare ogni nuova nascita come doppia, per cui al bambino reale, che vive nel villaggio, viene associato un bambino fantastico, denominato Kimkirka, che vive nella foresta e il solo sapere che esiste un doppio è rassicurante e d’aiuto per il bambino reale (Giasanti, 2011). Anche gli Egizi immaginavano che ad ogni corpo umano corrispondesse, fin dalla nascita, un corpo spirituale con gli stessi tratti fisici, denominato Ka (il doppio) (Giasanti, 2011; Audriola, 2008).

 La figura del doppio la ritroviamo nelle religioni, dai miti greci alle commedie di Plauto (L’Anfitrione, III secolo a.C.), da Dostoevskij (Il Sosia, 1846) a Poe (William Wilson, 1839), da Stevenson (Dottor Jekyll e Mr Hyde, 1886) a Wilde (Il ritratto di Dorian Gray, 1890), da Pirandello (Il Fu Mattia Pascal, 1904; Uno, nessuno e centomila, 1926) a Calvino (Il Visconte Dimezzato, 1952) e tanti altri sia nelle opere di artisti di ogni epoca e, in ognuno di essi, l’elemento che accomuna è sempre un alone misterioso.

Per gli artisti delle più diverse età e culture, infatti, affrontare il tema del doppio ha rappresentato una sfida e una ricerca, talvolta angosciosa e terrorizzante, talvolta ironica e paradossale, attraverso la quale è stato portato alla luce il dramma universale dell’uomo che si crede uno e si scopre di essere un altro. Il doppio, quindi, mette in discussione il nostro senso di unicità, la nostra identità e la perdita delle certezze fa paura, anche se l’identità è in qualche modo ‘doppia’, perché consiste in un gioco d’integrazione/alienazione, d’identificazione/differenziazione.

Il doppio, dunque, appare legato al concetto di duplicità, che si esplicita nell’uomo al passaggio dalla simbiosi/non differenziazione tra sé e la madre alla scoperta di se stessi come diversi dalla madre e dell’Altro da sé, mentre alla nascita il neonato non fa distinzione tra sé e l’Altro e vive in una totale fusionalità, fase denominata da Neumann ‘stadio uroborico’. Il percorso verso la differenziazione non avviene senza angoscia (angoscia dell’ottavo mese di cui parla Spitz) e anche i terrori notturni e le fobie diurne, che possono manifestarsi, probabilmente sono legate sia alla proiezione nell’estraneo dei propri aspetti psichici pericolosi sia al richiamo della primaria perdita dell’unità. I bambini più creativi, secondo Giani Gallino (1993), possono affrontare questo processo non del tutto da soli, ma con un doppio di sé, che può, all’occorrenza, assumere il ruolo e la funzione di un Altro da sé. Ciò può dimostrarsi un’ingegnosa risorsa: in ‘due’ si cresce meglio, si hanno meno insicurezze di base e ci si adatta più facilmente al mondo dei grandi.

Considerando ciò si può dedurre che, in arte e in letteratura, attraverso la figura del doppio, si è posto l’uomo di fronte ai suoi fantasmi sia offrendogli una rappresentazione fittizia della sua più inconscia inquietudine sia mostrandogli la necessità d’integrare le proprie parti oscure per evitare la scissione e la disintegrazione (come avviene, ad esempio, per il dottor Jekyll (Stevenson, 1886) e per Dorian Gray (Wilde, 1890)).

Il tema del doppio, proprio perché insito nella natura umana, è stato di grande interesse tra gli psicoanalisti nel corso del Novecento (Freud (1919); Lacan (1974); Kohut (1976); Kernberg (1978)), i quali hanno sviluppato studi sull’argomento, interpretando la creazione del doppio anche come sintomo patologico del narcisismo.

Uno dei primi psicoanalisti ad occuparsene è stato Otto Rank (1914), secondo il quale il doppio è la rappresentazione di un conflitto interiore, dove la scissione psichica darebbe origine ad un altro Io. “La paura causata dal complesso dell’Io crea lo spaventoso fantasma del doppio, il quale rappresenta i desideri segreti e sempre repressi dell’anima.”[1]

Il doppio, secondo Rank, inoltre, nascerebbe come “energica negazione della morte” e la sua prima manifestazione risiederebbe nella convinzione dell’esistenza di un’anima immortale. Anche secondo Freud (1919), il doppio si crea per protezione dalla morte e, quindi, dall’annientamento dell’Io. Esso nasce dall’amore illimitato per se stessi del narcisismo primario, che domina la vita psichica sia del bambino che dell’uomo primitivo e, con il superamento di questa fase, il sosia diventa un perturbante presentimento di morte. Il perturbante, quindi, non sarebbe nulla di nuovo, ma anzi qualcosa che la vita psichica conosce sin dai tempi più remoti e che è diventato estraneo, nascosto a causa del processo di rimozione e che, quando ritorna, provoca angoscia. “Il carattere perturbante del sosia, infatti, può trarre origine solo dal fatto che il sosia stesso è una formazione appartenente a tempi psichici remoti e ormai superati, nei quali tale formazione aveva un significato più amichevole. Il sosia è diventato uno spauracchio così come gli dei, dopo la caduta della loro religione, si sono trasformati in demoni.”[2]

Il doppio, spesso, infatti, è rappresentato dal mostro, parola che, etimologicamente, deriva dal latino monstrum, che significa ‘ciò che si rivela’, inteso come segno del divino e del prodigioso e, successivamente, con questo termine furono identificate le creature mitiche, risultanti da una contaminazione di elementi diversi, tale da suscitare stupore e fascino per la loro complessità e anomalia. La personificazione del doppio, quindi, dà voce alle rivelazioni mostruose del nostro inconscio e la sua comparsa, anche se attrae e affascina, è una minaccia, in quanto può esporre il soggetto alla possibilità di una scissione annientante e disintegrante dovuta al rimpatto con parti di sé rifiutate.

Jung (1973) non parla di doppio nella sua opera, ma introduce il concetto di Ombra, definendola come il lato primitivo, inferiore e privo di luce dell’uomo, quasi una seconda personalità, un compagno oscuro, demoniaco e perturbante. L’Ombra fa parte sia dell’inconscio personale, in cui coincide con le rimozioni di idee e di sensazioni negative legate all’Io, sia dell’inconscio collettivo, in cui come archetipo coincide con impulsi, istinti e contenuti universali legati a ciò che l’umanità rifiuta[3]. L’Ombra, quindi, ha diversi livelli: abbiamo un’Ombra personale, risultante dall’adattamento al collettivo, che contiene tutte le parti che l’Io e la coscienza condannano come valori negativi; un’Ombra collettiva, collegata a ciò che l’umanità considera male, come, ad esempio, non uccidere, il cannibalismo e così via ed esiste anche un’Ombra archetipica, ontologica, che non possiamo eliminare (rappresentata simbolicamente dal peccato originale, ossia dal fatto che non siamo Dio).

Nell’inconscio collettivo, secondo Neumann (1978), l’Ombra è costellata dalla figura dell’Antagonista, come, ad esempio, Lucifero e Caino. La funzione dell’Ombra è di compensazione di fronte all’Io e la sua formazione è legata all’introiezione dell’Antagonista, attraverso cui s’introiettano la malvagità e le tendenze aggressive. Solo con l’incorporazione di questo lato oscuro la personalità diventa capace di combattere, di distanziarsi dal collettivo per imporre la propria diversità individuale di fronte alle esigenze livellatrici della comunità. Per questo l’Ombra, nel mito, spesso, compare come un gemello, in quanto non è solo un ‘fratello nemico’, ma anche un compagno e un amico e nell’evoluzione psicologica il Sé è nascosto nell’Ombra ed è, quindi, attraverso di lui che passa la via per il Sé.

E’, quindi, fondamentale che l’uomo si confronti con la propria Ombra, il che porta ad una conquista molto importante per la nostra coscienza: l’accettazione dell’essenziale duplicità dell’uomo. Se, invece, l’Ombra non viene fronteggiata e accettata come parte integrante della propria personalità, s’impadronisce del soggetto che ne diventa schiavo.

Per confrontarsi con la propria Ombra, l’uomo deve creare un ponte tra inconscio e coscienza. L’arte può aiutare in questo percorso, in quanto permette di entrare in contatto con il proprio mondo interno, dandogli una forma di rappresentazione. Come sostiene Jung (1930), inoltre, l’operare artistico è una testimonianza della dialettica tra conscio e inconscio, mondo razionale e mondo affettivo, pensiero e materia, individuo e collettivo ed è un incrocio tra i fantasmi personali con le immagini archetipiche e con la cultura del tempo in cui vive l’artista.

L’artista, quindi, si colloca tra il mare (inconscio) e il sole (intelletto), incarnando il mito eroico di colui che deve attraversare le più oscure profondità della sua anima per riemergere arricchito di nuova coscienza, accettando la tensione degli opposti e dando forma  alla materia caotica dei complessi. L’uomo creativo, come afferma Neumann (1975), ha il compito di mostrare agli altri la via per l’inconscio, di accompagnarli nel viaggio verso i sotterranei dell’anima, aprendo la propria esperienza individuale alla vicenda di tutta l’umanità. Attraverso le sue opere, infatti, l’artista rende visibile ciò che prima era invisibile e, operando su se stesso, crea le condizioni per la presa di coscienza propria ed altrui, fornendo a chi guarda le associazioni necessarie per suscitare idee impreviste che forniscano le chiavi del mistero.

E’ importante considerare che l’incontro con l’Ombra provoca orrore, caos e angoscia e l’artista tenta con la sua opera di dar forma a queste sensazioni inquietanti, in modo che l’opera d’arte diventi contemporaneamente il contenitore del terrore e l’agente trasformatore di emozioni indicibili. In questo modo al posto delle angosce impensabili (Winnicott, 1926, p.69) o al terrore senza nome (Bion, 1962, p.178), compare una rappresentazione che, anche se pregna di sofferenza, è suscettibile di trasformazione.

L’arte, quindi, obbliga l’uomo ad aprire gli occhi sull’ambiguità dell’esistenza, diventando così una presenza inquietante, un elemento che turba e incrina la visione abituale delle cose. Tramite l’arte si prende coscienza dell’assurdo e del mistero che caratterizzano la condizione umana. Le arti visive riescono in modo privilegiato ad esplorare oscure profondità, in particolare la fotografia, utilizzando lo stesso linguaggio dell’inconscio, ossia le immagini, favorisce la regressione, necessaria per entrare in contatto con l’Ombra.

La storia delle arti figurative, infatti, testimonia il bisogno di dar forma a ciò che forma non ha, di visualizzare ciò che lo sguardo non riesce a cogliere per esorcizzarlo o, almeno, poterlo fronteggiare. La possibilità di esprimere, attraverso delle immagini contenuti psichici arcaici, intensi e lontani dalla coscienza è un’esperienza liberatoria sia per l’artista, in quanto la rappresentazione di ciò che oscuratamente disturba, permette di non essere più confusi e invasi da un male indeterminato, ma lo si può almeno distinguere da se stessi e cercare di fronteggiare; sia per l’uomo comune, che attraverso le immagini dell’artista può entrare in rapporto con l’inconscio, senza venire distrutto dalla potenza di certe emozioni. Questo accade perché l’immagine, utilizzando un linguaggio simbolico per esprimere ciò che non si riesce a comunicare con le parole, riesce a scavalcare l’interpretazione cosciente, quale essa sia, per scendere nell’inconscio, attivando, attraverso i meccanismi di proiezione e d’identificazione, i demoni personali di colui che contempla l’opera ed è in questo legame profondo con l’immaginario del fruitore che l’opera svolge una funzione trasformativa estremamente importante.

La fotografia, in particolare, attiva il tema perturbante del doppio, che è già insito nella sua stessa natura. La foto, infatti, ha a che fare con la duplicazione sia nel momento della ripresa all’aria aperta, sia nel momento della risoluzione nel buio della macchina e ogni passaggio di questo processo aggiunge una quota d’imprevedibilità. La foto ha un doppio anche dentro se stessa, nel senso che possiede un doppio strato, un doppio fondo: da una parte è gelatina translucida, ma nel fondo c’è la stagnola, un mantello di argento.

Guardando le nostre foto, inoltre, si osserva ciò che è stato, realtà e passato si uniscono, generando un’area che evoca la morte, in quanto riportano alla luce un mondo che non c’è più. Ciò che noi consideriamo morte è la fine di ogni funzione vitale, l’estinzione, la rovina, la fine, ma è anche l’incognita, il vuoto, il buio, l’ombra. La fotografia, attraverso l’atto di bloccare l’istante, diventa simbolo, spazio vuoto, memento mori, che attesta l’inesorabile incombere dell’azione dissolvente del tempo.

 Le immagini che ci ritraggono sono la rivelazione di un vuoto che altro non è se non il doppio che è in noi, così la fotografia si lega all’ambiguo, a quell’indefinito che le conferisce ciò che Freud ha denominato Perturbante, in quanto il vedersi nelle foto è sempre un’esperienza un po’ inquietante poiché in ogni immagine rimane sempre un tasso più o meno elevato di non riconoscibilità. Nel rapporto con i nostri autoritratti quando si percepisce qualcosa di strano e sconosciuto riguarda sempre il difficile rapporto con se stessi e con la scoperta della propria Ombra, infatti, difficilmente c’è coincidenza tra immagine reale e ideale e bisogna fare i conti con le oscure rivelazioni che ci rimanda la foto.

Il raddoppiamento della propria immagine, quindi, sembra da un lato voler rassicurare il nostro Io, dall’altra, nella misura in cui sembra sottrarci la nostra stessa anima e ci mostra le nostre zone d’Ombra, finisce per rappresentare una minaccia o una sfida proprio per l’integrità dell’Io, il che si riallaccia all’antico timore di farsi fotografare per paura di perdere qualcosa di vitale come l’anima o l’identità, ancora oggi presente nei popoli primitivi.

Le immagini che in modo più efficace innescano il processo proiettivo sono quelle che contengono un sottile fuori campo, uno sfuocato, una zona d’ombra, un elemento d’indeterminatezza e di mistero, elementi che possono scatenare quello che Barthes (1980) chiamava punctum, ossia quello che ferisce, ‘punge’ e fa innamorare di quella foto, proprio perché entra in risonanza maggiormente con i contenuti psichici interni, che, di solito, non sono ben definiti, ma confusi proprio come questi elementi della fotografia.

La fotografia, in questo modo, permette di far esistere quello che non c’è, in quanto la realtà non esiste finché non è rappresentata, trasformata o sognata. La foto può rappresentare ciò che Winnicott (1971) definisce ‘area transizionale’, luogo dell’illusione, del sogno, del gioco, dell’emancipazione dalla necessità del contatto, luogo della conoscenza, dove la realtà può costituirsi senza che il soggetto si senta andare in pezzi. In tal senso la fotografia è una sorta di rito di passaggio, in cui ogni immagine è uno ‘scatto’ verso la crescita.

La fotografia, inoltre, permette sia di ricordare che di dimenticare perché fotografare un’emozione significa restituire un affetto ingestibile al mondo delle cose rappresentate, prendere le distanze, accedere al simbolo. Così l’immagine permette di esteriorizzare un’emozione interna per poterla elaborare e, dopo averla trasformata, interiorizzarla nuovamente. Anche le raffigurazioni del doppio innescano questo meccanismo, attraverso il quale esteriorizzando la propria Ombra, ossia le parti individuali considerate negative, non accettate, sia dal soggetto che dalla società, si può prendere le distanze da essa per poi integrarla.

Molti fotografi hanno rappresentato il doppio in molti modi diversi, in base alla loro storia e al periodo storico in cui hanno vissuto, e le loro opere possono diventare uno strumento con cui entrare in contatto e appropriarsi gradualmente delle nostre parti sotterranee e inquietanti, ossia della nostra Ombra. Nell’analizzare le opere di diversi artisti considerò tre modi diversi di rappresentare il doppio:

  • come immagine allo specchio;
  • come gemello, sosia;
  • come la nostra ombra divenuta autonoma. [4]
  • Doppio come immagine allo specchio

Analizzando la rappresentazione del doppio come immagine allo specchio, bisogna considerare che l’ambiguità dello specchio è un topos ricorrente nella cultura occidentale, con implicazioni a livello simbolico e metaforico, che hanno avuto precisi risvolti sia sul piano iconografico, ad esempio, lo specchio compare come attributo allegorico sia della Prudenza che della Vanità, sia sul livello concettuale-filosofico, in cui la capacità di riproduzione dello specchio può essere sentita sia come espressione di oggettività e verità sia come segno di illusione e fallacia.

Sotto un profilo psicologico, lo specchio, attraverso il suo riflesso, costituisce il primo doppio, che ci mostra la nostra esistenza al mondo, tanto che nella letteratura e nel folklore l’assenza di riflesso è attribuita ai vampiri o ai fantasmi, ossia a entità che hanno perso la loro vita umana e senza riflesso l’uomo non è uomo intero. Lo specchio è ciò che consente la costruzione del nostro Io (fase dello specchio di Lacan (1974)) e ci assicura la stabilità e la costanza della nostra immagine, infatti, ci guardiamo allo specchio per ritrovarci e, in questo meccanismo, si cela il piacere del ritrovamento del già noto. Nello stesso tempo, però, lo specchio è in grado di rilevare anche aspetti nuovi e inattesi del nostro volto e di noi stessi, facendoci conoscere realtà profonde che, altrimenti potrebbero sfuggirci. Altre volte, invece, può nascondere ciò che non si deve vedere e, quindi, avere una valenza protettiva, data dal fatto che ci mostra una realtà mediata dal riflesso. In tal senso, ad esempio, è utilizzato lo scudo riflettente da Perseo per sconfiggere Medusa, in quanto l’unico modo per sconfiggere il Male e, in questo caso, l’archetipo della Madre Terribile, è di porlo di fronte alla propria immagine per distruggerla.

In arte lo specchio è un dispositivo polivalente, che permette deformazioni, ribaltamenti, allontanamenti. Anche in fotografia è stato utilizzato in questo modo da fotografi come Brassai[5], attraverso il quale ha messo a nudo la parte in ombra dei soggetti. Per far ciò Brassai ha utilizzato la tecnica “en abyme”, con la quale s’inserisce una figurazione in un’altra per raddoppiare la prima. Questa tecnica permette che le immagini riflesse nello specchio possano rappresentare la realtà, per cui, attraverso lo specchio, il fotografo mostra l’invisibile nel visibile. In ogni foto Brassai sembra guardare la realtà con occhi nuovi, da più punti di vista, “penetrando con la macchina fotografica oltre le soglie consce e precostituite della logica dello sguardo naturale, inquadra il buio, la luce si riflette negli specchi, doppi del doppio meccanismo della riproduzione fotografica.”[6]

La foto stessa, però, nei ritratti e negli autoritratti, può essere considerata uno specchio, con tutte le implicazioni, già descritte, legate al riconoscimento di sé. In tal senso è stata utilizzata, ad esempio, da Urs Luthi[7], artista eclettico, che, dal 1968 al 1980, si è dedicato principalmente all’autoritratto fotografico improntato sul tema dell’ambiguità sessuale. Ha così realizzato una serie di self-portraits nell’estenuante tentativo d’immortalare gli innumerevoli aspetti di un’identità in via di definizione, per cui sceglie il proprio volto e il proprio corpo come ambito primario della sua ricerca. Egli vuole mostrare, attraverso i propri autoritratti, come e quante identità possono essere contenute in un singolo individuo, rivelando immagine per immagine, i molteplici lati oscuri celati e discretamente ‘svelati’ tramite il medium fotografico.

Questo suo bisogno nasce dall’aver vissuto sulla propria pelle la fragilità, la paura della morte, della perdita dell’Io, dell’altro che abita in se stesso, le ossessioni e gli incubi della trasformazione e dello sdoppiamento. Luthi racconta la sua esperienza attraverso se stesso, dando corpo all’ambiguità, nella consapevolezza di contenere identità cangianti, attraverso le quali lo spettatore può identificarsi per ricercare la propria natura e interagire con le diverse facce che si celano dietro ad un’unica realtà.

La foto come specchio, quindi, è una sorta di porta spazio-temporale che ci permette di scoprire altre parti di noi stessi. Amplificando e moltiplicando la realtà può mostrare punti di vista diversi e nascosti della stessa realtà, come nelle foto di Bressai, oppure può permette di vedere aspetti sconosciuti e, a volte, persecutori di sé, che, attraverso essa, possono essere distanziati per poi essere elaborati ed integrati. In entrambi i casi, le opere possono svolgere una funzione catartica sia per l’artista che per l’osservatore.

  • Il doppio come sosia o come gemello

Il rappresentare il doppio come sosia o come gemello, invece, nasce dal fatto che, spesso, l’Ombra viene proiettata su chi ci sta vicino e il gemello o il sosia sono l’incarnazione dell’Ombra, ossia delle parti negative di sé, scisse e non integrate. In questo senso, quindi, il sosia o gemello rappresenterebbe un’invasione dell’inconscio nel campo della coscienza, la cui comparsa provoca angoscia e inquietudine. L’utilizzo di questo artificio è stato utilizzato sin dall’antichità, come, ad esempio, nell’Anfitrione (commedia latina scritta nel III secolo a.C.) di Plauto, e anche diversi fotografi hanno giocato con diverse tecniche sia nel raddoppiamento dell’immagine di se stessi, sia nella duplicazione delle immagini di altri o prediligendo quasi in modo ossessivo le fotografie di sosia e gemelli reali.

Il raddoppiare la propria immagine rappresenta una sfida all’integrità dell’Io, in quanto lo sdoppiamento dell’Io sarebbe il risultato di una scissione interiore. In questo caso il sosia rappresenterebbe l’aspetto sconosciuto, trascurato di sé del quale si prende coscienza solo attraverso il drammatico confronto con un altro se stesso, la cui ossessiva comparsa assume valenza persecutoria.

Molto interessante, a tal proposito, è il lavoro della fotografa canadese Janieta Eyre[8], divenuta famosa proprio per il suo continuo autorappresentarsi in costumi diversi insieme a un suo doppio immaginario, una gemella identica. L’artista gioca con se stessa e i propri doppi, parafrasando l’idea di un corpo autoespresso e automodificato, nel quale far confluire le sinergie paradossali tra copia e originale, positivo e negativo. Del suo stesso lavoro la Eyre afferma “queste foto comportano due scatti sullo stesso negativo, logicamente ci dovrebbe essere un soggetto originale e un Doppelgänger, visto che non possono comparire due corpi autentici se esiste soltanto una me stessa, ma se entrambi i corpi sono delle copie e non esistono simultaneamente tranne che sul negativo, è allora impossibile affermare che l’uno o l’altro sia reale.”[9]

Attraverso il suo lavoro la Eyre traduce le proprie fantasie in realtà, in quanto grazie alla resa fotografica crea, ogni volta, un ibrido surreale, una sorta di profonda congiunzione tra identità estranee. L’ossessione di un sé speculare, sdoppiato e dissociato conduce l’artista a travestire il proprio corpo di continuo e, in questo modo, indaga i diversi aspetti del suo Io, scisso e non integrato, che cerca di ricomporre nelle foto in cui le due gemelle, ossia le due parti di se stessa, fanno parte di uno stesso corpo.

Questo suo lavoro prende origine da un suo trauma personale: a sei mesi fu separata chirurgicamente da sua sorella, gemella siamese, che non sopravvisse all’intervento. Dopo la perdita ha sempre sofferto di allucinazioni e il rievocare il doppio mancante, attraverso la fotografia, sembra un suo modo per elaborare il lutto, ma anche per stabilire un monologo-dialogo con se stessa, con la propria interiorità, per ricrearsi e costruire la propria identità scissa dalla gemella siamese.

L’assenza, la perdita della gemella siamese, quindi, permette l’apparizione del doppio, che sembra rappresentare la personalità lasciata in ombra, le tante anime presenti in noi stessi, ciò che di noi avrebbe potuto, ma non può esistere, ma anche un tentativo di recuperare l’altro.

In modo diverso è stato utilizzato il doppio come gemello, sosia dalla fotografa italiana Francesca Randi[10], che ha fatto del doppio la sua filosofia di fotografa, utilizzandolo in modo ossessivo e trasfigurandolo in scene dove esseri femminili, giovani donne e infanti, riflettono la loro immagine sdoppiandosi differentemente in due livelli, creando nello spettatore un senso di smarrimento. L’artista definisce il doppio come “l’essere che non ha un’anima, che ha due anime o è un’anima sola in due” ed afferma che il confrontarsi con esso “non sempre è una cosa negativa.”

Nelle fotografie della Randi c’è un’esasperazione del doppio, che si manifesta come l’essere identico, ma diverso da se stesso (nella posizione, nelle espressioni), l’altra parte dell’Io che, rimasta nascosta per tanto tempo si rivela, creando uno stato d’angoscia e costringendo l’osservatore a confrontarsi con la duplicità e le parti nascoste di sé.

Francesca Randi nelle sue foto ha ripreso un processo simile alla fotografa Diane Arbus[11], la quale aveva un interesse quasi morboso per la doppiezza, le coppie e la gemellarità.

  • Il Doppio come la nostra Ombra divenuta autonoma

Diane Arbus, nonostante provenisse da una famiglia abbiente di New York, come fotografa è stata sempre attratta dai bassifondi e, di solito, i suoi soggetti sono stati i freaks, ossia le persone fisicamente abnormi, i fenomeni da baraccone, i soggetti con deformità psichiche o, più in generale, considerati dalla società dispregiativamente diversi a causa dei loro comportamenti e delle loro attitudini. Oltre ai cosiddetti socialmente ‘diversi’ la Arbus ha fotografato anche la deformità celata all’interno della società borghese, che si vorrebbe impeccabile, affermando che “c’è sempre una differenza tra quel che vogliamo si sappia di noi e quello che non possiamo evitare si sappia di noi”[12] e anche quando ha fotografato i cittadini normali lo ha fatto in pose e atteggiamenti, che trasmettono la sgradevole sensazione che qualcosa è seriamente sbagliato.

Anche la tecnica utilizzata mira ad avere una maggiore penetrazione con i soggetti per farli risultare più estranei e più potenti, in quanto, come la stessa Arbus afferma, “i soggetti della fotografia sono sempre più importanti dell’immagine”[13]. Per ottenere ciò la Arbus ha utilizzato il negativo di formato quadrato e l’uso costante del flash anche di giorno, inoltre ha fatto posare i soggetti precisamente al centro, fermi, abbandonati, soli davanti all’obiettivo, il che crea una strana condizione, innaturale e vera insieme, espressiva e al limite dell’inespressivo negli sguardi persi, nei gesti minimi, ma di fatto essenziali, nell’esposizione minima e massima.

Le sue opere appaiono come il contenitore dell’Ombra collettiva, contengono tutto ciò che la società rifiuta, nega e tenda a nascondere, sotto la maschera della perfezione e dell’impeccabilità. Per tale motivo, infatti, la Arbus fu etichettata come la ‘fotografa dei mostri’ e, inizialmente, ebbe delle difficoltà nel mettere in mostra le sue fotografie, anche se poi divenne molto famosa e ancora oggi è considerata una delle più geniali fotografe mai esistite. Proprio, però, nel momento di massimo successo, la depressione, che l’aveva accompagnata per tutta la vita, peggiorò, tanto da portarla al suicidio. Prima di morire affermò che guardando “nell’obiettivo tutto mi sembrava brutto e non capivo che cosa non andasse…era come guardare un caleidoscopio. Lo si scuote di qua e di là, ma nulla mi soddisfa.”[14]

Per tale motivo l’opera della Arbus sembra rientrare nel terzo gruppo di rappresentazione del doppio, ossia dell’Ombra divenuta autonoma, in quanto la sua ossessione morbosa per il doppio e per il diverso, sembrano essere la proiezione della sua Ombra, scissa dalla sua personalità e, nonostante i tentativi di entrarvi in contatto attraverso l’arte e l’instaurazione rapporti profondi con i soggetti rappresentati, è stata sopraffatta dall’energia distruttiva e autonoma dell’Ombra scissa. La vita della Arbus, in tal senso, appare simile alla favola di Andersen ‘L’ombra’, in cui il protagonista perde la sua ombra ed essa, divenuta autonoma, s’ingrandisce tanto da impadronirsi della vita del suo proprietario, diventare famosa, imprigionarlo e portarlo alla morte, nello stesso modo l’Ombra della Arbus continua a sopravvivere attraverso le sue fotografie.

Attraverso le immagini dei diversi fotografi abbiamo visto come si può dare forma diversa ai mille volti dell’Ombra ed essi possono essere inseriti nella fase di nigredo di cui parla l’alchimia. Sono immagini di una psiche immersa nell’oscurità, che precede la luce della trasformazione e solo, attraversando il contatto con quest’oscurità e portando alla luce gli aspetti in ombra, è possibile integrare le parti inesplorate nella nostra personalità per avviare il processo d’individuazione.

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[1] Rank O., Il Doppio, il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Sugarco, 1914 (p.96).

[2] Freud S., Il Perturbante, in Opere vol. IX, Boringhieri, 1989 (p.105).

[3] Jung C.G., Psicologia dell’inconscio, 1973, Boringhieri (p.97).

[4] Divisione utilizzata da Trevi in riferimento alla letteratura nell’introduzione all’opera di Stevenson ‘Dottor Jekyll e Mr Hyde’, Feltrinelli, 2004 (pp.5-16).

[5] I riferimenti al fotografo francese Brassai (1899-1984) sono tratti dal libro di Simeone E.C., Lo specchio e il doppio tra pittura e fotografia, Aracne, 2008 (pp.19-24).

[6] Krauss R., Teoria e storia della fotografia, Mondadori, 1996 (p.152).

[7] Le informazioni sul fotografo e pittore svizzero Urs Luthi sono tratte dal libro di Naldi F., I’ll be a mirror, travestimenti fotografici, Copper, 2003 (pp.46-55).

[8] I riferimenti ad Janieta Eyre sono tratti dal libro di Naldi F., I’ll be a mirror, travestimenti fotografici, Cooper, 2003 (pp.110-118).

[9] Naldi F., I’ll be a mirror, travestimenti fotografici, Cooper, 2003, (p. 115).

[10] Raldi F., intervista sul periodico online Fashion E-Zine (www.fashionezine.it) dal titolo “Non sempre avere a che fare con il doppio è negativo”.

[11] Le informazioni sulla fotografa americana Diane Arbus (1923-1971) sono tratte da due libri: Bosworth P., Diane Arbus, vita e morte di un genio della fotografia, Rizzoli, 2006; Bertelli P., Della fotografia trasgressiva. Dall’estetica dei “freaks” all’etica della ribellione. Saggio su Diane Arbus, 2006, Nda Press.

[12] Bertelli P., Della fotografia trasgressiva. Dall’estetica dei “freaks” all’etica della ribellione. Saggio su Diane Arbus, 2006, Nda Press (p.12).

[13] Bertelli P., Della fotografia trasgressiva. Dall’estetica dei “freaks” all’etica della ribellione. Saggio su Diane Arbus, 2006, Nda Press (p.13).

[14] Bosworth P., Diane Arbus, vita e morte di un genio della fotografia, Rizzoli, 2006 (p.301).

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