di Maria Elisabetta Quaglino
I’ll tell you something,
I am a wolf but, I like to wear sheep’s clothing.
I am a bonfire, I am a vampire,
I’m waiting for my moment.
(Garbage – Temptation Waits)
Perché indossi quello stupido costume da coniglio?
Perché indossi quello stupido costume da uomo?
(Donnie Darko)
Quante maschere e sottomaschere noi indossiamo
Sul nostro contenitore dell’anima, così quando,
Se per un mero gioco, l’anima stessa si smaschera,
Sa d’aver tolto l’ultima e aver mostrato il volto?
La stessa maschera non si sente come una maschera
Ma guarda di fuori di sé con gli occhi mascherati.
Qualunque sia la coscienza che inizi l’opera
Sua, fatale e accettata sorte è l’ottundimento.
Come un bimbo impaurito dall’immagine allo specchio
Le nostre anime, fanciulle, rimangono disattente,
Cambiano i loro volti conosciuti, e un mondo intero
Creano su quella loro dimenticata causa;
E, quando un pensiero rivela l’anima mascherata
Esso stesso non va a smascherare da smascherato.
(Fernando Pessoa)
Se proviamo a ripercorrere a ritroso la storia dell’umanità ci accorgeremo subito di come la Maschera, nelle sue varie forme e declinazioni, sia stata un elemento estremamente importante fin dall’inizio della civiltà e per tutti i popoli a noi conosciuti.
A partire dai primitivi, e più precisamente dal paleolitico, l’uomo ha sempre tentato di appropriarsi di sembianze “altre” da lui, che gli permettessero di ottenere un potere e una sacralità al di là dell’umano: proprio in questa accezione sono interpretati i disegni rinvenuti in Francia, nella cosiddetta “Caverne des trois frères”, che rappresentano un uomo che indossa una pelle di cervo e porta in testa le corna di un animale[1].
Questo travestimento è sicuramente assimilabile a una prima forma di maschera, e di mascheramento, così come noi la possiamo intendere oggi, e si lega in maniera quasi naturale a quella definizione di Sartre del “giocare a essere” che ci ricorda Massimo Recalcati, per cui:
“[…] la maschera è quella funzione immaginaria che cancella ogni divisione del soggetto che sopprime ogni differenza tra l’essere del soggetto e il suo sembiante” (Recalcati, 2010, p. 178).
Con la stessa disposizione d’animo anche i Caduvei, una popolazione a lungo studiata da Claude Lévi-Strauss durante i lunghi viaggi in Brasile, creavano sui loro volti e sui loro corpi pitture particolarmente elaborate per dimostrare e rafforzare la loro identità in quanto uomini, così come tutt’ora, seppur con lievi differenze di significato, anche i Surma dell’Etiopia sono soliti dipingere il proprio viso. Questi ultimi in particolar modo hanno l’abitudine a dividere verticalmente il viso in due parti per poi colorarle con tinte e decorazioni contrapposte in maniera tale da ricreare una vera e propria maschera intimidatoria[2].
Anche tra gli Indiani d’America l’uso delle maschere era largamente diffuso nelle danze e nei riti di iniziazione, e gli Egizi le utilizzavano per coprire i volti dei defunti che, in questo modo, avrebbero potuto tendere all’ideale spirituale con cui avrebbero dovuto integrarsi al di là della vita terrena.
In Grecia la maschera compare come elemento scenico nel teatro, spogliandosi in parte delle valenze più squisitamente sacre e rituali primitive, mettendosi invece a servizio dell’attore, come un vero e proprio filtro tra lui e lo spettatore, per potergli permettere di interpretare di volta in volta i diversi personaggi presenti nelle trame, a volte anche complesse, di commedie e tragedie.
Ed è proprio il tema del travestimento, dell’impersonificazione dell’altro, dell’abbandono delle proprie sembianze, che permette di tornare a pensare a quell’uomo primitivo vestito di pelle di cervo e che si ricollega a tutto il filone delle feste carnevalesche, durante le quali era, ed è, permesso diventare qualunque altra cosa o qualunque altra persona si voglia, diversa da sé. Come ci ricorda Guénon:
“Del resto, ognuno sceglierà naturalmente fra queste maschere, senza neppure averne una chiara coscienza, quella che meglio gli conviene, cioè quella che rappresenta quanto è più conforme alle sue tendenze, sicché si potrebbe dire che la maschera, che si presume nasconda il vero volto dell’individuo, faccia invece apparire agli occhi di tutti quello che egli porta realmente in se stesso, ma che deve abitualmente dissimulare” (Guénon, 1984, pp. 134-135).
Questo pensiero apre un’importante riflessione: è forse vero che, in un’occasione come quella delle feste carnevalesche, venga scelta la Maschera in un certo senso più affine alla nostra parte più profonda, che non avrebbe forse altro modo per essere guardata, da noi stessi e dagli altri, se non in quel particolare momento in cui “tutto è permesso”, ma è anche vero che quel particolare tipo di Maschera va semplicemente a sostituire quella che ci portiamo dietro (e dentro) quotidianamente, quella che realmente nasconde la nostra identità personale ogni giorno.
La Maschera è allora strumento e metafora di quella che, junghianamente, viene chiamata Persona, e per capirne fino in fondo la funzione non si può che seguire le tracce della Persona stessa lungo il sentiero dell’opera junghiana.
Che cos’è dunque la Persona? Essa è:
“[…] rappresentazione complessiva del nostro essere che noi ci siamo formati in base all’esperienza delle influenze esercitate da noi sul mondo circostante e delle influenze esercitate da questo su di noi. La Persona indica ciò che uno appare a sé e al mondo circostante e non ciò che uno è” (Jung, 1921, trad. it. 1969, p. 223).
È proprio in questo senso che possiamo capire come non sia certo un caso che Jung abbia scelto proprio il termine “Persona” per esplicare questo concetto. “Persona”, nell’accezione latina del termine, significa esattamente “maschera”, e come le maschere usate dagli attori nell’antichità, la Persona diviene filtro tra realtà esterna e individuo, permettendo all’uomo un adattamento al mondo reale, in un compromesso tra esigenze proprie e richieste dell’ambiente in cui siamo immersi.
Così come lo stregone, o il capotribù, utilizzava la Maschera per assumere un determinato ruolo all’interno della sua comunità e quella sacralità, quel “prestigio magico”, di cui si è già detto, allo stesso modo noi attraverso la Persona ci conformiamo al ruolo che ci è stato assegnato, o abbiamo scelto, all’interno della nostra società.
Proprio per questo motivo Jung ritiene che la Persona sia, in realtà, un frammento della cosiddetta “psiche collettiva”, che ci permette di “simulare” l’individualità, ma che non ci rappresenta interamente e internamente[3].
“[…] la Persona è non ciò che uno è realmente, bensì ciò che egli e gli altri credono che sia” (Jung, 1940/1950, trad. it. 1980, p. 121).
Siamo dunque “collettivi” nella misura in cui ognuno di noi, senza esclusioni, si presenta al mondo esterno attraverso la Persona, che diventa quantomeno necessaria per ottenere un riconoscimento di sé nel collettivo stesso; ma siamo, nonostante ciò, allo stesso tempo “individuali” dal momento che le Persone non sono tutte uguali. Ognuno di noi indossa una diversa Maschera, si conforma a un certo modello, in maniera assolutamente individuale[4].
Questo intreccio tra collettivo e individuale viene sottolineato da Bruno Meroni attraverso un’osservazione di Hillmann:
“La persona, dice la psicologia, non è certamente il sé vero. Quella maschera è solo un modo per adattarsi alle istituzioni della società, solo un ruolo e non il vero “me” interiore. Questo modo personale e privato di pensare la nostra immagine separa quello che facciamo nel mondo da quello che crediamo di essere veramente dentro di noi e in questo modo dimentichiamo che l’immagine apparentemente superficiale della persona è la faccia esteriore di quel sé che effettivamente e veramente siamo. Il mallo e il guscio fanno parte della noce intera così come il gheriglio” (Meroni, 2005, p. 30).
Come le sette note musicali sono elementi immutabili e universali, che vengono di volta in volta combinati tra loro in sequenze sempre diverse a sola discrezione del musicista, in maniera quindi puramente individuale, così accade agli elementi della Persona di un determinato essere umano.
Jung stesso ci dice che:
“L’individuale appare come principio della singolarità nella combinazione di elementi collettivi nella Persona e nelle loro manifestazioni” (Jung, 1916, trad. it. 1983, p. 303).
E come lo stesso musicista è in grado di creare melodie diverse, così lo stesso uomo può indossare Maschere diverse, essere Persone diverse, a seconda dell’ambiente in cui si trova, del particolare momento di vita che sta attraversando, delle persone con cui viene a contatto e dell’effetto che su queste persone spera di ottenere, anche in base, ad esempio, all’importanza che dà all’essere da loro accettato e confermato nel suo essere quella determinata Persona.
Come scrive Jung:
“Basta, per esempio, osservare attentamente lo stesso individuo in circostanze diverse per scoprire come la sua personalità, nel passare da un ambiente a un altro, si modifichi in modo evidente così che ogni volta ne risulta un carattere ben delineato e nettamente diverso dal precedente” (Jung, 1921, trad. it. 1969, p. 416).
In un certo senso questo atteggiamento potrebbe risultare un’apparente continua fuga da se stessi, ma è pur sempre vero che tutte queste Maschere, come già è stato sottolineato, sono parte integrante di quel particolare individuo che le indossa. Forse la loro molteplicità è legata alla molteplicità delle parte di sé presenti in ognuno di noi, che portano con sé una volontà di manifestazione, di “rendersi visibili” a occhi esterni, che non potrebbero raggiungere in altro modo.
La riflessione di David Breton sui volti umani e sulla Maschera si inserisce perfettamente in questo filone di pensiero. Egli scrive:
“Le masque lève le joug de la myriade des dispositions qui se pressent en chaque homme et qui n’attendent quel les circonstances favorables pour se développer en plein jour. En ce sens, il n’est pas un “faux visage” comme on l’a écrit, mais une disponibilité de visage, un lieu sans limites, d’hébergement de l’Autre. […] Un autre visage est une autre capitale de l’identité” (Breton, 1992, pp. 239-241)[5].
E ancora:
“Le masque est un agent de métamorphose, selon le style de sa conformation et les forces qu’il contribue à cristalliser chez celui qui le porte à son visage. Mais son effet est imprévisible car il traduit l’alchimie d’une rencontre entre deux potentialités, celle de l’homme et celle contenue dans le masque” (Breton, 1992, p. 244)[6].
La Maschera diventa dunque, secondo questa concezione, ulteriore possibilità espressiva per l’individuo, ma esiste un duplice rischio. Da un lato il soggetto potrebbe perdere di vista, nella quantità di Maschere che si trova a cambiare, il nucleo fondante della propria personalità, quel Sé, si potrebbe in fondo dire, più profondo che lo rappresenta nella maniera più vera e genuina; d’altra parte egli potrebbe invece scegliere, anche inconsapevolmente, una di queste Maschere, ed essere a tal punto travolto dal suo fascino e dal potere che questa gli conferisce (in una sorta di momento magico, esattamente come accadeva ai sopracitati stregoni o capitribù) da non essere più in grado di separarsene, nemmeno nei momenti più privati della sua vita, e divenire tutt’uno con la propria Persona. Quando questo accade, al potere della Persona si contrappone l’affievolirsi di quella che Jung definisce Anima: essa è la funzione di relazione con il mondo interno, l’“atteggiamento verso l’interno” come dice Jung stesso, una sorta di portatrice della voce dell’inconscio, che in questa situazione l’individuo fatica sempre più ad ascoltare[7]. La soggettività dell’individuo viene in qualche modo accantonata e l’uomo non riesce a restare in contatto con la propria vita interiore, travolto dalle istanze collettive della Persona, allontanandosi sempre più da quel sentiero che porta alla conoscenza di Sé, che Jung ha chiamato Individuazione e che, per sua natura, ha proprio il compito di “liberare il Sé dai falsi involucri della Persona” e permettere al singolo di conoscere la parte più intima, peculiare e profonda di Sé, la parte più “sua”[8].
“Chi guarda nello specchio dell’acqua vede per prima cosa, è vero, la propria immagine. Chi va verso se stesso rischia l’incontro con se stesso. Lo specchio non lusinga; mostra fedelmente ciò che in esso si riflette, e cioè il volto che non esponiamo mai al mondo perché lo veliamo per mezzo della Persona, la maschera dell’attore. Ma dietro la maschera c’è lo specchio da cui il vero volto traspare” (Jung, 1934/1954, trad. it. 1980, p. 19).
Come dice Jung, nel momento in cui decidiamo di “andare verso noi stessi”, inevitabilmente dovremo incontrarci, incontrare quella parte di noi più nascosta, recondita e vera, ma altrettanto inevitabilmente dovremo fronteggiare la nostra Maschera e le valenze che essa porta con sé, e dar loro un significato, poiché se ne rimanessimo completamente sforniti, se la caricassimo a tal punto di negatività da rinnegarla senza considerarla parte integrante di noi, ecco che allora incorreremmo nel rischio opposto a quello dell’identificazione con la Persona: l’identificazione con l’Anima.
Se questo dovesse accadere, la conseguenza, non meno importante di quella derivante dall’identificazione con la Persona, sarebbe il costituirsi di una personalità quasi completamente incapace di “stare al mondo”, di poter entrare in relazione con gli altri individui, di avere un ruolo all’interno della società e altresì di non possedere alcuna corazza che possa proteggere dagli eventi negativi, dalle difficoltà e avversità che lungo il cammino si potrebbero incontrare.
Come per noi è complesso entrare nei meandri di tali concetti junghiani e dipanare la matassa dei continui aspetti contrapposti, ma indissolubilmente legati, della Maschera/Persona, così per l’Io è faticoso, ma necessario, riuscire a mantenere un equilibrio tra Persona e Anima.
La Persona si rivela essere, in fondo, meno negativa di quanto la si sia fatta finora apparire: essa non è solo l’ostacolo alla piena realizzazione di Sé, ciò che appiattisce le differenze individuali nel collettivo, ma è anche quella che semplifica il nostro stare al mondo, in società insieme alle altre persone. Per vivere nel mondo e “fare la nostra parte”, noi abbiamo bisogno di portare una Maschera, noi “non possiamo che anche essere la maschera che ci è dato portare”[9].
Ma la Maschera è anche quella che, in realtà, nascondendo, protegge proprio quella parte più profonda, intima e delicata di noi, esattamente come proteggeva gli uomini dalla violenza del sacro, dell’inumano. Nietzsche stesso diceva che: “Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera”.
Forse allora il vero traguardo da raggiungere è la consapevolezza dell’indissolubile e immutabile legame con questa entità, la Maschera, e la ricerca di un equilibrio tra interno ed esterno, tra Anima e Persona.
Se riusciremo nell’intento, verremo a contatto con quella che Meroni chiama Persona interna, quella proprietà che permette all’Io di non alienarsi dal collettivo ma allo stesso tempo non esserne travolto, come anche di potersi “destreggiare” tra le diverse Maschere e di far sì che nessuna entità prevalga sulle altre al punto da escluderle[10].
In questo modo indosseremo qualunque Maschera consapevolmente, le metteremo e le toglieremo a nostro piacimento esattamente come l’attore fa con quelle di scena nel momento in cui deve passare da un personaggio all’altro, potremo essere in grado di comportarci proprio come ci verrà richiesto dalla società in quel momento e allo stesso tempo non perdere la coscienza di noi stessi.
Il continuo alternarsi in noi di Maschera-Non Maschera riflette il nostro cammino di vita, durante cui cerchiamo incessantemente una meta, un punto di arrivo e di risoluzione del conflitto interiore che ci anima, ed è per questo che:
“Alla mutevolezza espressiva del volto, alle sue trasformazioni imposte dal tempo, la maschera oppone la sua atemporalità, la sua eternità. In realtà la maschera costituisce, assieme al volto, una possibile congiunzione di opposti. […] Il mistero che la profondità della maschera racchiude sta anche in questa coniunctio di umano e sovrumano: il dinamico psichismo evocato da una persona fisica si dilata nella fissità senza tempo della maschera; l’assenza di vita nella maschera si anima degli incessanti contenuti che le infonde chi la indossa” (Meroni, 2005, p. 133).
Ancora una volta si può dunque dire che nell’individuo vivano e permangano molteplici diverse istanze con cui egli deve avere a che fare, e che ognuna di loro sia strettamente legata all’altra in un grande intreccio che costituisce l’uomo in quanto tale, come complessa totalità di desideri, sentimenti, azioni, pensieri, parole.
Non possiamo prescindere da nessuna di esse, dovremmo “semplicemente” mettere in pratica le parole che Jung disse a Serrano:
“L’uomo dovrebbe vivere secondo la propria natura; dovrebbe prima di tutto sforzarsi di conoscere se stesso, per poi vivere in armonia con la propria verità. Che cosa penseremmo di una tigre che fosse vegetariana? Che è una cattiva tigre. Allo stesso modo, ciascuno deve vivere secondo la propria natura, sia individualmente sia collettivamente” (Serrano, 1966, p. 91).
Nell’Elogio della Follia, Erasmo da Rotterdam scriveva: “Tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico”. Meroni ci ricorda che Ernst Bernhard disse che: “Solo con la morte si depone la maschera”[11].
Fin da piccoli ci viene insegnato il modo in cui dobbiamo comportarci in determinate situazioni, ci viene detto cosa fare e cosa non fare, veniamo educati e preparati alla vita in modo da poter indossare la nostra Maschera, o le nostre Maschere, quasi senza rendercene conto. Ed essa ci accompagnerà fino alla fine dei nostri giorni, fino a quella morte che, dissolvendo il nostro corpo, la farà cadere.
Bibliografia
Breton D., Des Visages, Editions Métailié, Paris, 1992
Fioroni F. (a cura di), Ovidio – Tertulliano – Tuke – Baudelaire – Serao.
Teoria del maquillage, ArchetipoLibri, Bologna, 2010
Guénon R., Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano, 1984
Jung C. G. (1921), Tipi psicologici, in Opere, vol. VI, Bollati Boringhieri,
Torino, 1969
Jung C. G. (1916), La struttura dell’inconscio, in Opere, vol. VII, Bollati
Boringhieri, Torino, 1983
Jung C. G. (1928), L’Io e l’inconscio, in Opere, vol. VII, Bollati Boringhieri,
Torino, 1983
Jung C. G. (1934/1954), Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in Opere, vol.
IX*, Bollati Boringhieri, Torino, 1980
Jung C. G. (1940/1950), Sul rinascere, in Opere, vol. IX*, Bollati
Boringhieri, Torino, 1980
Meroni B., La maschera inevitabile. Attualità dell’archetipo della maschera,
Moretti&Vitali, Bergamo, 2005
Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica
psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010
Serrano M., C. G. Jung and Herman Hesse. A record of two friendships,
Routledge & Kegan Paul, London, 1966
[1] Meroni B., La maschera inevitabile. Attualità dell’archetipo della maschera, Moretti&Vitali, Bergamo, 2005
[2] Fioroni F. (a cura di), Ovidio – Tertulliano – Tuke – Baudelaire – Serao. Teoria del maquillage, ArchetipoLibri, Bologna, 2010
[3] Jung C. G. (1928), L’Io e l’inconscio, in Opere, vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino, 1983
[4] Jung C. G. (1916), La struttura dell’inconscio, in Opere, vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino, 1983
[5] Breton D., Des Visages, Editions Métailié, Paris, 1992. Trad.: “La maschera solleva il giogo della miriade di possibilità di “essere” che sono nascoste in ogni uomo e non aspettano che le circostanze favorevoli per svilupparsi alla luce del giorno. In questo senso non è un “falso viso”, come si è scritto, ma una disponibilità del viso, un luogo senza confini, l’asilo che accoglie (e contiene) l’Altro. […] Un altro viso è un altro aspetto dell’identità (di sé)”.
[6] Ibidem. Trad.: “La maschera è un agente di trasformazione, (che agisce) a seconda del suo aspetto e delle caratteristiche predominanti che contribuisce a cristallizzare in chi la porta sul viso. Ma il suo effetto è imprevedibile poiché traduce l’alchimia di un incontro tra due potenzialità, quella dell’uomo e quella contenuta nella maschera”
[7] Jung C. G. (1921), Tipi psicologici, in Opere, vol. VI, Bollati Boringhieri, Torino, 1969
[8] Jung C. G. (1928), L’Io e l’inconscio, in Opere, vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino, 1983
[9] Meroni B., La maschera inevitabile. Attualità dell’archetipo della maschera, Moretti&Vitali, Bergamo, 2005
[10] Meroni B., La maschera inevitabile. Attualità dell’archetipo della maschera, Moretti&Vitali, Bergamo, 2005
[11] Meroni B., La maschera inevitabile. Attualità dell’archetipo della maschera, Moretti&Vitali, Bergamo, 2005