Lo sguardo dell’analista sulle immagini del paziente

Gruppo di ricerca AISPT: Filomena Rosiello – Michele De Toma – Giuliana Bitelli

Le mani si muovono dentro e fuori la sabbiera sotto lo sguardo e l’attenzione, a volte fluttuante dell’analista, che con le sue mani segna sul quaderno osservazioni, modalità, ordine degli oggetti, pensieri che fluiscono liberamente. Poi qualcosa rompe il silenzio delle parole e copre il suono della sabbia e delle mani che la toccano. “Ho finito” – dice chi ha rappresentato nel quadrato azzurro angosce, idee dominanti, senso di frustrazione, sentimenti ed emozioni fino a qual momento sconosciuti. A volte anche scene da un sogno o proseguimenti di racconto di vita reale. In quel quadrato prende forma qualunque contenuto che in quel momento l’inconscio propone. A volte stupore e meraviglia accompagnano la prima visione globale della scena, altre volte rabbia o senso di impotenza perché non è quanto si voleva fare. L’analista osserva insieme al paziente raccogliendo le sue emozioni e quelle dell’altro invitando ad un ascolto attento e spesso silenzioso. Un vero esercizio di permanenza nel pieno/vuoto, per entrambi i protagonisti.

Il paziente sa che l’analista fotograferà quella scena perché gli è stato detto quando il gioco della sabbia è stato presentato e sa anche che non ci sarà interpretazione della scena, almeno verbalmente ed esplicita, ma solo amplificazione. Ed è proprio attraverso l’amplificazione che può aprirsi un varco attraverso cui guardare con altri occhi, sentire con altre orecchie e altro cuore quello che è stato creato dalle mani. Mani che spesso accompagnano le poche parole con gesti profondi, dichiarano il loro imbarazzo muovendosi a scatti o rimanendo appoggiate sul bordo della sabbiera. Anche le mani dell’analista daranno il loro contributo dapprima quando smonteranno la scena e riporranno negli scaffali gli eventuali oggetti usati ma anche quando entreranno in contatto con la macchina fotografica che dovrà imprimere la scena. In quel momento le mani dell’analista esprimeranno emozioni, imbarazzi, senso di impotenza o soddisfazione, difese e interpretazioni inconsce attraverso il gesto del fotografare con cui stanno dando, della scena nella sabbiera, una versione semi-permanente, o permanente – grazie alla tecnologia digitale-.

Nel gesto del fotografare viene richiamato un primo passaggio importante che è proprio quello che si muove dall’impermanenza alla permanenza, anche se si tratta di un’immagine che mostrerà “la materia che ha pensato e lavorato durante la costruzione della scena” ma dove questa stessa materia non sarà più contattabile con il corpo dopo lo smontaggio del quadro di sabbia.

La fotografia conserva la memoria e permette la condivisione e la visione successiva al paziente che ha creato la scena. Infine, mostra tutto il processo terapeutico perché quello della terapia delle sabbie è un processo verso l’autenticità e la conquista del centro (spesso alla fine del processo la conquista del Centro viene espresso con un mandala di sabbia e oggetti o solo di sabbia).

A partire dalla propria esperienza e dalle condivisioni con altre/i colleghe/i, nel gruppo di ricerca si è sviluppata una riflessione su alcuni “errori” fotografici frequenti quali ad esempio sfocature, pessime inquadrature, dimenticanze di particolari, riprese solo dall’alto e soprattutto diffuso taglio nell’immagine dei bordi della sabbiera, come se quegli angoli/spigoli non ci stessero nella scena.

Nel gruppo di ricerca abbiamo notato che le immagini più interessanti sono proprio quelle più ricche di “errori” o di “ombre”: ci è sembrato chiaro che la fotografia del quadro di sabbia può fornire degli elementi importantissimi

  • sulla relazione controtransferale;
  • e sul vissuto inconscio del terapeuta circa la scena e circa i vissuti del paziente colti attraverso essa;
  • soprattutto ci può fornire elementi sull’ombra di questa relazione laddove è meno consapevole;
  • può inoltre evidenziare elementi che il terapeuta vuole enfatizzare in quanto particolarmente significativi per lui o per il paziente;
  • infine può sottolineare ulteriori suggestioni rispetto al paziente.

In gruppo abbiamo sperimentato insieme “testimonianze inconsapevoli” date dal linguaggio fotografico che, con le sue sfocature, il troppo vicino o troppo lontano, i suoi tagli e le sue angolature, le sue amplificazioni, il sovraesposto o sottoesposto, parla del terapeuta e delle sue percezioni della scena, delle sue associazioni con i propri vissuti personali, oltre che delle sue interpretazioni silenziose circa le mosse del paziente.

Allora anche lavorare riflettendo sulla fotografia ci riconduce al tema analitico dell’importanza degli eventi meno dettagliati, di ciò che rimane più in ombra e sfumato perché è proprio in quelle zone che si attivano le proiezioni del terapeuta: esse gli permettono di entrare in relazione con gli oggetti, con la sabbia e con i propri contenuti.

Spesso abbiamo individuato in certe fotografie un elemento, un dettaglio presente, a prima vista inapparente ma in realtà decisivo perché cuore di tutta l’immagine, custode del coinvolgimento emotivo cui certe fotografie inducono, un dettaglio spesso estraneo alle informazioni che la fotografia direttamente ed esplicitamente fornisce; un piccolo punto che suscita il senso di verità che solo certe fotografie sanno portare.

L’immagine completamente esposta e visibile nella fotografia lancia così da essa uno sguardo, che fa cenno a un invisibile. Non solo verso lo spectrum ora invisibile, ma anche verso un invisibile che era invisibile fin dall’origine. Invisibile già nell’attimo che la fotografia immortala, ossia non percepito esplicitamente nel mondo che lo scatto fotografico fissa. In questo senso, solo la fotografia può cogliere il dettaglio custode del senso e svelarlo, nella possibilità che essa ci consente di soffermarci su ciò che nella immagine è depositato, nascosto ma completamente esposto.

La fotografia svela dunque, attraverso il piccolo punto o elemento inatteso, un senso che è insieme assenza pur nella presenza che lo suscita e rivela.

Breve storia del gruppo e metodo di lavoro

Il gruppo si è costituito per iniziativa e proposta di Filomena Rosiello a ottobre 2021; contava due partecipanti a cui se n’è aggiunto un terzo poco dopo.

Si è iniziato a individuare gli obiettivi della ricerca, concentrati a studiare il controtransfert del terapeuta attraverso lo strumento della fotografia delle sabbie.

Si è proseguito con il confronto tra sabbie presentate dai partecipanti (una donna seguita da anni alla sua ultima sabbia, un uomo abusato, un uomo con complesso materno molto articolato, un ragazzo adolescente con attaccamento morboso alla madre) per individuare lo stile fotografico dei terapeuti.

Abbiamo scoperto, come detto poco fa, aspetti interessanti, aspetti “negati” involontariamente e aspetti “enfatizzati” in quanto cercati più o meno coscientemente dall’analista e messi al centro delle foto, seppure con motivazioni in ombra.

Abbiamo anche accolto la proposta di un componente il gruppo di vedere i movimenti della costruzione della sabbia e “fotografare” anche quelli grazie a una tecnica particolare inventata dalla collega, che registra in successione i posizionamenti e gli spostamenti degli oggetti con linee tracciate “a mano” o “virtualmente” sopra la foto finale. La tecnica illumina sulle dinamiche profonde del paziente e segnala una crisi o lo scioglimento di nodi importanti lungo il cammino delle sabbie.

Siamo disponibili ad accogliere altri partecipanti interessati in quanto crediamo che nella molteplicità caleidoscopica delle esperienze si arricchiscano la ricerca e le scoperte.

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L’AISPT, espressione italiana della International Society for Sandplay Therapy ISST, si occupa di formazione, ricerca, condivisione di esperienze e conoscenze sulla psicologia con il metodo del Gioco della Sabbia, all’interno di una rete internazionale che facilita lo studio, la discussione specialistica e lo scambio tra i terapeuti. La Sandplay Therapy fornisce un linguaggio simbolico anche a chi non ha parole per esprimere il proprio malessere, consentendo di rappresentare il mondo interno così come si è costellato.

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