Di Eleonora Tramaloni
Cara Rosy, solo ora posso scrivere di te e per te, ora che è passato quel tempo che ha permesso al cuore e all’anima di sciogliere il dolore e lo sbigottimento della perdita.
Ci eravamo conosciute tanti anni fa quando i nostri figli erano piccoli e tu decidevi di aprire all’omeopatia e alla psicoanalisi la tua formazione di medico anestesista, quel passare dalla cura del solo corpo alla cura della psiche.
Un passaggio che ti ha dato la completezza dello sguardo nella cura del paziente, permettendoti di scegliere, calibrare e integrare con saggezza il percorso terapeutico di cui l’altro aveva più bisogno.
La tua forza e determinazione nascondevano le perle della tua tenerezza e sensibilità e mi piaceva sentirle, riconoscerle nella condivisione di una amicizia che è cresciuta nel tempo e intorno alla vita che svolgeva i suoi percorsi trovandoci vicine.
Mi avevi chiesto di venirti a prendere, volevamo assistere allo spettacolo teatrale di Marco Garzonio su Freud e Jung in quel giugno del 2016 e non sapevo che tornando verso casa mi avresti detto di aver ricevuto l’esito dell’esame fatto: tumore ai polmoni.
In auto, tra le mie parole di speranza su un esito sbagliato o più lieve di quel che poi è stato, ti preoccupavi solamente di Beatrice e dei tuoi pazienti, del loro dolore, degli impedimenti che avresti potuto creare. Non pensavi a te ma a loro …
Poco tempo dopo, nell’attesa di altri esami definitivi, mi dicesti tranquilla: “Sai Ele, settimana prossima saprò il mio destino”.
E al tavolino del ristorante sotto il tuo studio poco tempo dopo, tra il riso e il pianto, parlavamo, come del tempo, della violenza del tuo tumore e del tempo che ti rimaneva, delle cose da fare; come quando prima di partire per il tuo “paradiso”, come chiamavi la casa in Monferrato, mi telefonasti e mi facesti ridere raccontandomi dell’antro della strega dove avevi trovato quella parrucca che ti avrebbe fatta bella e soprattutto non avrebbe turbato troppo la tua adorata figlia quando in agosto ti avrebbe vista dopo gli effetti della chemio.
Hai vissuto fino alla fine, davvero vissuto e non arrancato neppure nel dolore più forte, quello che negli ultimi mesi scuoteva le tue membra e ti faceva soffrire.
Risorgevi subito con l’energia rabbiosa e amorosa per i cambiamenti nell’Aispt, un’altra figlia amata sino alla fine e per gli altri, per tutti i cari: familiari, amici e colleghi a cui tenevi davvero e che ti piaceva avere vicini anche in ospedale, anche lì come una Regina disponibile, allegra e affettuosa.
So che eravamo figlie d’anima della stessa madre e so che da lei tanto abbiamo ricevuto e interiorizzato.
Non sapevo, non immaginavo che dopo il saluto ad Adriana e il nostro sentirci fortunate depositarie insieme a tanti della sua ricchezza ed esempio di vita junghiana, avrei dovuto così presto lasciare anche te vedendo la stessa dignità, forza e dolcezza nell’affrontate l’ultimo tratto di vita terrena.
È difficile perdere un’amica e una collega intensa, ti lascia dentro un grande vuoto e lo smarrimento, lo sbigottimento della perdita e delle separazioni che la vita continuamente ci chiede e nello stesso tempo ti ritrovi un po’ più grande, con dentro una ricchezza profonda e il compito di doverla esprimere e regalare agli altri come lei ti ha insegnato.
So che ora mi diresti: “Va bene Ele grazie, ma adesso passiamo ad altro e andiamo a lavorare, continuiamo ad occuparci della nostra Associazione, della Scuola, dei Master e del collegamento con le altre realtà nazionali e internazionali”.
Ora, per noi che restiamo rimane il valore stimolante della sua ricerca teorica e clinica, le sue intuizioni e gli studi circa la correlazione tra neuroscienze e Sandplay nella convinzione profonda del valore terapeutico e trasformativo del gioco, capace di attivare quei piani simbolici motori fondamentali per la trasformazione profonda della psiche.
Cercherò allora di descrivere brevemente il suo pensiero tra neuroscienze, alchimia e Sandplay Therapy. La doppia competenza di medico e psicoanalista le ha permesso con maggior facilità di collegare due discipline del sapere umano, dato così importante oggi per una visione tesa al superamento della separazione tra cultura umanistica e scientifica nella direzione, come scrive il filosofo Edgar Morin, di un pensiero multidimensionale e complementare. Penso all’importanza di conoscenze e saperi integrati e condivisi per un arricchimento reciproco nel rispetto delle diversità e specificità d’intervento.
Nella terapia analitica con la Sandplay Therapy vi è la possibilità di riattivare aree altrimenti irraggiungibili, perché legate a un inconscio non-rimosso, che oggi si sa legate alla memoria implicita dei primi due anni di vita.
Una memoria che non può essere ricordata coscientemente ma solo raggiunta attraverso l’attività immaginativa ed emozionale portata dai sogni e da tutte le pratiche terapeutiche non verbali come la Sandplay Therapy.
Le neuroscienze hanno confermato scientificamente le profonde intuizioni cliniche dei nostri Maestri e non è certo un caso, come Rosy ci ricordava, che anche Jung avesse impostato tutta la sua opera e la sua vita a “giocare” con le immagini. Lo stesso Jung che incoraggiò caldamente la Signora Kalff a proseguire nella pratica di una terapia non verbale così potente come la Sandplay Therapy.
Rosy ci comunicava come le ultime scoperte neuroscientifiche confermino che ognuno di noi non ha solo una storia di avvenimenti ma anche una storia di affetti e come queste due storie si uniscano e talora si confondano a vicenda.
La storia affettiva inizia dai nostri primi momenti di vita e fino all’età dei due anni s’imprime nelle cellule più profonde e arcaiche del nostro cervello. Strutture cerebrali come l’amigdala le raccolgono e le organizzano per poi connetterle con le strutture superiori che matureranno nel nostro cervello solo dopo i due anni. Queste strutture superiori rappresentate dall’ippocampo sono fondamentali per la formazione della memoria esplicita che potrà essere verbale e simbolica perché collegata all’emisfero sinistro e al linguaggio, ma non presente e disponibile prima dei due anni di vita.
Per questa ragione i nostri ricordi coscienti iniziano solo dopo i due anni ed essendo depositati nella memoria esplicita possono essere rimossi: non così per quelli legati alla memoria implicita o affettiva per la quale parliamo di un inconscio non rimosso, non verbale e non simbolico. Affetti profondi che non hanno potuto essere rimossi perché non ricordati coscientemente e legati all’emisfero destro particolarmente deputato alle emozioni.
Queste tracce mnestiche depositate dalla memoria implicita nell’inconscio non rimosso saranno la struttura di base, la personalità e il carattere dell’individuo e ne condizioneranno la vita affettiva, cognitiva ed emotiva per tutta l’esistenza.
Le neuroscienze confermano con le loro scoperte l’importanza, da sempre espressa dalla psicoanalisi, delle relazioni primarie come “mattoni” di un inconscio precoce che non può essere rimosso poiché le strutture della memoria esplicita non sono ancora pronte.
Le esperienze traumatiche e non traumatiche della prima infanzia e sembra anche di fasi seguenti della vita umana sono depositate in questa primaria forma di memoria implicita, l’unica presente all’inizio dell’esistenza.
Gli studi attuali sembrano confermare come anche durante la vita, in presenza di esperienze traumatiche che portano alla perdita di neuroni ippocampali, avvenga una alterazione dei circuiti della memoria esplicita e i ricordi delle emozioni riguardanti gli eventi accaduti siano depositati nella memoria implicita, creando un tardivo inconscio non rimosso.
Anche da questa importante scoperta neuroscientifica vediamo sottolineata l’importanza dei sogni e della Sandplay Therapy, quest’ultima in grado di offrire la possibilità di entrare in contatto e di rappresentare le immagini interiori anche nel caso di esperienze traumatiche avvenute in età adulta. Il paziente avrà la possibilità di entrare in contatto con emozioni dolorose, inesprimibili a parole e non disponibili nella memoria cosciente.
La scoperta dei neuroni specchio aprirà altre importanti frontiere portando alla consapevolezza che vi è una base neuronale nella nostra capacità di sintonizzarci con gli altri attraverso la connessione tra le esperienze che il nostro corpo fa muovendosi nel mondo e le certezze implicite che si hanno degli altri.
Rosy sottolineava l’importanza di queste certezze implicite descritte dal ricercatore italiano Vittorio Gallese che nei suoi lavori scrive come l’osservatore usi le proprie risorse per penetrare nel mondo dell’altro attraverso un processo non conscio, automatico e implicito di simulazione motoria, che stabilisce un legame diretto tra chi agisce e chi osserva, poiché entrambi mappati in modo neutro. Se dunque gli atti motori sono i mattoni con cui l’azione è prodotta, percepita e compresa ne consegue un nuovo approccio epistemico al mondo che ribalta la teoria cognitivista classica (percezione-cognizione-azione). Si passa da un sé corporeo derivante dalla percezione a un sé corporeo derivante dall’azione.
Molti autori, da Winnicott a Jung, rilevano che giocare è di per se stesso terapeutico; non solo perché è un processo dinamico che attiva una comunicazione tra paziente e terapeuta, ma anche perché giocare vuol dire “fare” in uno spazio e in un tempo determinato in un’esperienza creativa essenziale per la vita. Jung ci dice che il gioco è un istinto tipico dell’uomo che, come tutti gli istinti, affonda le sue radici nel corpo e nella psiche. Il corpo quindi come un protagonista che permette di “riplasmare” una nuova storia futura.
Napoliello ci ricordava come il lavoro di Jung sull’Alchimia e anche il nostro lavoro terapeutico con il paziente avvenga, come nell’Alchimia, contemporaneamente su due livelli.
Nell’Alchimia era presente un primo livello fisico nel quale la materia veniva manipolata concretamente, come nel Gioco della Sabbia e uno psichico in cui il riflesso del lavoro delle mani innescava una serie di fantasie inconsce che a loro volta venivano proiettate sul processo in atto.
Come spiegano i neuroscienziati, i gesti della bocca e della mano sono collegati da circuiti comuni. Per questo Rosy ci ricordava che, solo dopo aver rappresentato immagini nella Sabbia con le loro mani, i nostri pazienti riescono anche a formulare delle parole attorno ad emozioni non prima verbalizzabili. Solo nell’azione si scopre continuamente se stessi e la propria storia e il linguaggio sarà alla fine il portatore, nella sonorità, della esperienza.
Rosy sentiva di poter affermare che quando offriamo al paziente la possibilità di giocare, non solo con le immagini dei sogni, ma anche concretamente con la sabbia, mettiamo il paziente nella stessa condizione nella quale l’alchimista si trovava nei secoli passati: esperimentare quella tensione al raggiungimento dell’irraggiungibile nell’attivazione dei piani simbolici capaci di determinare una profonda trasformazione della psiche.